Che Morrissey avesse una sfrenata passione per le cover, si sapeva. Come si sapeva che amasse cimentarsi in pezzi oscuri (o perlomeno curiosi), come testimonia la versione degli Smiths di “Golden Lights” di Twinkle, meteora Pop anni Sessanta. Fino a oggi, però, il Moz si era dilettato con le rivisitazioni di brani altrui principalmente dal vivo, oppure le aveva riservate ai lati b dei vari singoli, rendendole poi disponibili nelle varie compilation che puntellano la sua discografia. California Son, quindi, superata la sorpresa iniziale, è in realtà un passo naturale nella carriera di Morrissey. Anzi, c’è da stupirsi che non sia arrivato prima.
Lo cosa più singolare di California Son, va detto subito, è la scelta delle canzoni. Da un innamorato del Glam della prima ora come Moz – presidente del primo leggendario fan club inglese dei New York Dolls e ammiratore sia dei T. Rex di Marc Bolan sia dei Roxy Music di Bryan Ferry – ci si sarebbe aspettati un album pieno di nuggets e di perle misconosciute, tra la polvere di stelle del Glam e il fragore assordante del primo Garage Rock. Ed invece Morrissey – uno che ha sempre preferito non farsi pizzicare dove tutti si aspettano di trovarlo – si lascia attrarre dagli anni Sessanta, dal Topanga Canyon e da Hollywood, perso da qualche parte tra Malibù e l’Oceano Pacifico, realizzando una sorta di tributo alternativo al Folk Rock e all’Echo in the Canyon sound di Byrds, Beach Boys e Buffalo Springfield.
Alternando piccoli classici come “It’s Over” di Roy Orbison, “Wedding Bell Blues” di Laura Nyro (ma portata al successo dai The Fifth Dimension) e “Lady Willpower” di Gary Puckett and the Union Gap a chicche da intenditore come “Only a Pawn in Their Game” di Bob Dylan, “Don’t Interrupt the Sorrow” di Joni Mitchell, “Days of Decision” di Phil Ochs e “Suffer the Little Children” di Buffy Sainte-Marie, Morrissey si diverte a confondere le acque, affiancando scelte per nulla scontate ad altre più tradizionali ma non per questo scolastiche. Il risultato è un album solare e colorato, una giusta via di mezzo tra You Are the Quarry, con sue le chitarre bene in evidenza e qualche inserto di synth, e l’ultimo Low in High School, dal leggero retrogusto Glam.
Anche se a leggere i crediti di copertina risulta che nel disco ci siano degli ospiti – Billie Joe Armstrong dei Green Day, Ed Drooste dei Grizzly Bear, Ariel Engle dei Broken Social Scene, Sameer Gadhia dei Young the Giant, Lydia Night delle The Regrettes, LP e Petra Haden – in realtà il loro contributo va dall’inudibile all’ininfluente, dal momento che il disco è saldamente nelle mani di Morrissey, della sua band (che qui offre una delle sue performance migliori) e del produttore Joe Chiccarelli, giunto alla terza collaborazione consecutiva con il bardo di Manchester.
Non è chiaro se la scelta di queste 12 canzoni vada letta come una velata critica politica da parte del Mozfather a questi tempi moderni, ma quello che è certo è che California Son è un bignami composto da splendide canzoni dalle melodie cristalline, con testi mai banali e con quella giusta dose di melodramma che è sempre stato il pane quotidiano di Morrissey – e che nessuno come lui è bravo a esaltare. Per cui, lasciamo pure che l’ex Smiths continui a recitare la parte del burbero e dell’eccentrico, di quello che in realtà si avvale della libertà di espressione, esercita il pensiero critico e sfida ininterrottamente il politicamente corretto (fino a prova contraria, tutti diritti inalienabili): se continua a fare dischi così, ben venga.