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REVIEWSLE RECENSIONI
01/07/2018
Johnny Marr
Call the Comet
Con Call The Comet tutti i nodi, purtroppo, vengono al pettine: la pochezza di ispirazione, una scrittura che pasticcia con il passato e sembra priva di prospettive future, una voce che, diciamolo con franchezza, è uno strazio, e una chitarra che mai come prima ha perso tutti i colori che da sempre la contraddistinguevano

Johnny Marr è e resterà sempre una leggenda, per quello che ha fatto con gli Smiths e per quel suono di chitarra byrdsiano, luccicante e un po' stralunato, fonte inesauribile di ispirazione per tutte le giovani leve a partire dagli anni ’90.

Chi scrive l’ha amato sempre, molte volte incondizionatamente, guardando con bonaria simpatia financo a una carriera solista non proprio all’altezza della sua fama. Eppure, nonostante non fossero dischi imperdibili, The Messenger (2013) e Playland (2014) nascondevano, fra le pieghe di scalette non eccelse, qualche gioiellino, qualche momento figlio dell’antica gloria, così ben riuscito da far sperare che, prima o poi, la carriera di Marr tornasse a livelli ottimali.

Addirittura, è tanta la stima per l’uomo e per l’artista, che abbiamo fatto sempre finta di non capire che quella voce esile e anonima non fosse adatta a cantare alcunché, figuriamoci canzoni che già non eccellevano per brillantezza. Oggi, pur essendo immutato l’amore verso Marr e la sua storia, ci troviamo però a fare i conti con un disco bruttino assai, un album dal quale, visto anche il tempo trascorso dal suo predecessore, ci saremmo aspettati qualcosa di più, e non certo questo compitino stiracchiato e incolore.

Con Call The Comet tutti i nodi, purtroppo, vengono al pettine: la pochezza di ispirazione, una scrittura che pasticcia con il passato e sembra priva di prospettive future, una voce che, diciamolo con franchezza, è uno strazio, e una chitarra che mai come prima ha perso tutti i colori che da sempre la contraddistinguevano. Lo dico con molta tristezza, ma davvero è difficile trovare qualcosa di buono in queste macerie che, solo con un grande sforzo di immaginazione, ricordano i fasti di una stagione leggendaria.

Che Marr sia in debito d’ossigeno lo si capisce subito da come ricicla materiale d’epoca spacciandolo per nuovo: la sezione ritmica e il cantato di The Tracers sono quelli di The Queen Is Dead, title track che apre l’omonimo disco, e Hi Hello un tempo si chiamava There Is A Light That Never Goes Out (ed infatti è anche uno dei pochi brani che si salvano dall’anonimato). Per dire come siamo messi a livello di creatività, datevi poi un ascolto a Spiral Cities che saccheggia senza pudore Someone, Somewhere, in Summertimes dei Simple Minds, e capirete che Marr, purtroppo per noi, vive la così detta fase del raschio del barile.

In scaletta c’è anche Bug, il consueto pezzo tamarro, che però manca della sfrontatezza che accendeva, ad esempio, Easy Money da Playland, ci sono scialbi tentativi di rinverdire fasti new wave (New Dominions, Actor Atractor) e citazioni smithsiane fuori tempo massimo (Day In Day Out).

A voler salvare qualcosa dal naufragio, getterei un salvagente a Walk Into The Sea, brano abbastanza prevedibile, ma più meditato e quasi sofferto, e all’iniziale Rise, innocuo pop rock che apre l’album citando nuovamente i Simple Minds. Sono solo, però, brevi attimi di lucidità in un disco confuso e per nulla ispirato, che scala le charts inglesi (al momento della stesura dell’articolo Call The Comet si posiziona al settimo posto), ma lascia in bocca un fastidioso retrogusto amaro. Perdonami, Johnny, ma questa volta ti meriti l’insufficienza.