Che cosa rende unico Herbie Hancock?
Basterebbe citare l’inizio della sua carriera, prima a fianco del trombettista Donald Byrd, suo mentore, e in seguito nella band di Miles Davis per posizionarlo nell’Olimpo della musica; tuttavia proprio in quel frangente, tra il 1962 e il 1965, Hancock pubblica pure una manciata di album rivoluzionari come bandleader e, insieme a due giganti come Ron Carter (basso) e Tony Williams (batteria), modifica il ruolo della sezione ritmica nel jazz, includendo assoli più ampi e cambi spontanei di atmosfera e tempo.
Se ciò non fosse sufficiente, negli anni Settanta sperimenta la jazz fusion, il funk e gli stili "electro", utilizzando una vasta gamma di sintetizzatori ed elettronica. È in questo periodo che realizza un’opera decisamente influente, Head Hunters. Negli Ottanta ottiene invece un singolo di incredibile successo con lo strumentale elettronico "Rockit", una collaborazione con il bassista/produttore Bill Laswell. Il pianista e tastierista di Chicago, inoltre, si aggiudica un Academy Award e 14 Grammy Awards, tra cui l'Album dell'anno per River: The Joni Letters, il disco tributo a Joni Mitchell del 2007. Rimane poi indimenticabile The Imagine Project (2010), ove, insieme a ospiti illustri fra cui Dave Matthews, Jeff Beck, Chaka Khan, Susan Tedeschi & Derek Trucks, The Chieftains e Los Lobos rilegge da par suo le proprie canzoni del cuore e dell’anima.
Un artista a tutto tondo, quindi, sempre pronto a smarcarsi dal ruolo acquisito e a proporre cose nuove e sperimentali. Tra le sue composizioni più note figurano "Cantaloupe Island", "Watermelon Man", e "Maiden Voyage", ormai classici del genere, e che dimostrano quanto adorasse cambiare e infrangere soglie, coltivando la sua natura camaleontica. Risulta così interessante approfondire la raccolta intitolata proprio Cantaloupe Island, uscita nel 1994, che, oltre ai brani sopra citati, ne inserisce altrettanti di cospicuo valore qualitativo, pescando dai quattro lavori seminali Takin’ Off (1962), My Point of View (1963), Empyrean Isles (1964) e Maiden Voyage (1965). Perché se è vero che l’unicità di Hancock è rappresentata dall’abilità di reinventarsi per sei decadi, la prima permane quella più rivoluzionaria e storica, fonte di ispirazione per musicisti e gruppi di diversa natura. Testamento della sua eterna freschezza, del fatto che i suoi pezzi siano degli evergreen è l’incredibile successo di "Cantaloop (Flip Fantasia)" nel 1993, canzone del gruppo “acid jazz rap” Us3, costruita attorno a un irruento e frenetico campionamento di "Cantaloupe Island".
L’originale, pubblicato nel 1964 da un giovane Herbie, allora ventiquattrenne, ha un’inebriante groove funky, con quel suo trascinante riff di piano e una cornetta e un flicorno da brividi, che portano un raggio di sole su una terra prima bagnata dalla pioggia e spingono a uscire dalle case e mettersi a ballare. Sì, perché "Cantaloupe Island" dà la sensazione di fisicità, è una canzone con le gambe che cammina verso di te e ti alza dal divano, ti smuove. L’avventuroso Hancock si spinge ai confini dell’hard bop, trovando un equilibrio brillantemente evocativo tra il bop tradizionale, il ritmo iniettato di soul dettato da un quartetto eccezionale, con personaggi del calibro di Ron Carter, Tony Williams e il mitico cornettista/trombettista Freddie Hubbard, e il jazz sperimentale e post-modale. Non sono da meno gli otto minuti di "Maiden Voyage" (cui si aggiunge al sassofono tenore George Coleman), esempio di splendore armonico, brillante per arrangiamento e virante, al solito verso territori nuovi.
“Maiden Voyage è la mia preferita in assoluto tra le mie opere: rappresenta il tentativo di catturare la magnificenza di un vascello nel suo viaggio inaugurale”.
Questa è la meraviglia della musica, significativa per comunicare suoni e immagini, come ben descritto dall’autore. E la raccolta include un altro standard indimenticabile, "Watermelon Man", celebre anche per la versione di Mongo Santamaria, a quei tempi letteralmente folgorato dall’esecuzione di Hancock, avvenuta fortuitamente durante una pausa in studio con Donald Byrd. Il pianista di Chicago scrive il motivo per aiutare a vendere il suo album di debutto come leader, "Takin’ Off", inizio dell’idillio con la Blue Note Records, e accanto a una solida sezione ritmica formata da Butch Warren (contrabbasso) e Billy Higgins (batteria), presenta le improvvisazioni del solito Hubbard e dell’irrefrenabile sax dello storico Dexter Gordon. La forma è una specie di blues di sedici battute basato su un riff di pianoforte, che attinge a elementi di R&B, soul jazz e bebop, senza disdegnare di sconfinare, a tratti, nel pop. L’ispirazione nasce, come spesso capita, da un ordinario fatto quotidiano, dal grido dell’uomo dei cocomeri che girava per le strade e i vicoli di Chicago e dal rumore delle ruote del suo carro che creavano un suono particolare, battendo sull’acciottolato.
Anche "Driftin’" fa parte di quel periodo e gode delle prestazioni della stessa formazione: ha un andamento bluesy con il piano sempre in evidenza, tambureggiante, e cattura per l’ammaliante assolo del veterano Gordon, ma si farebbe un torto a Hubbard se non si citasse pure la sua classe alla tromba.
“Ho scritto Blind Man, Blind Man cercando di evocare qualcosa che riflettesse il mio background nero. L’uomo cieco in piedi nell’angolo che suona la chitarra è un lontano ricordo di quando scorrazzavo nel mio quartiere di Chicago”.
Memorie di gioventù danno il la alla stesura di "Blind Man, Blind Man", tentativo riuscito di bissare il successo di "Watermelon Man", ma stavolta l’ensemble è più numeroso; nella vibrante sezione fiati compare il maestro Donald Byrd accanto a Hank Mobey e Grachan Moncur III, a cui si aggregano la freschezza dell’amico Tony Williams dietro le pelli, il basso preciso di Chuck Israels e, novità, una ficcante chitarra, per merito di Grant Green, il quale ha la genialità di insaporire le sue attitudini jazz con delicati intrecci gospel.
La raccolta prosegue con "And What If I Don’t" (prima della conclusiva già citata Maiden Voyage") con l’organico come sopra ed estratta sempre da My Point of View. Ecco un altro frizzante esperimento ove si enfatizza la vivacità dei personaggi, su tutti un encomiabile Williams, davvero all’avanguardia nel suo stile che già incorpora declinazioni rock.
Artista leggendario, coraggioso e visionario, Herbie Hancock, pur sentendo il peso degli anni e delle vicissitudini affrontate, si è esibito con successo lo scorso fine giugno al Festival di Glastonbury, suonando, tra le altre, l’epica "Cantaloupe Island", ottenendo fragorosi applausi da un pubblico ricolmo di giovani. E proprio nei giovani Hancock confida, per una rigenerazione del genere che solo in parte verrà fuori dal Paese in cui il jazz è nato, come da lui recentemente affermato.
“Il jazz è un dono dell'America al mondo e ha influenzato persone di tutte le culture. Ecco perché il nuovo gruppo di musicisti jazz non proviene solo dall'America. Vengono da tutto il pianeta!”.