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REVIEWSLE RECENSIONI
Carnage
Nick Cave
2021  (Goliath Enterprises Limited)
IL DISCO DELLA SETTIMANA ALTERNATIVE
8/10
all REVIEWS
08/03/2021
Nick Cave
Carnage
Realizzato durante il lockdown (o per lo meno così hanno detto) da un’unica session in cui i vari brani sarebbero fuorusciti in maniera facile e spontanea, “Carnage” è un lavoro dove Warren Ellis conduce le redini del gioco, mettendo tutto il suo armamentario, violini, orchestrazioni, glitch ed elettronica varia, al servizio delle idee del suo datore di lavoro.

È uscito a sorpresa il 25 febbraio dopo che lo stesso Cave, rispondendo ad una domanda nel suo ormai celebre format “Red Hand Files” aveva anticipato che c’era un disco pronto e che si sarebbe chiamato “Carnage”. L’incertezza stava solo nei tempi di pubblicazione, quando ce lo siamo trovati bell’e pronto su Spotify l’unica sorpresa è stata rappresentata dalla presenza del solo Warren Ellis e non dei soliti Bad Seeds, tra i nomi in copertina (non che non avessero mai lavorato in coppia ma era accaduto solo per le colonne sonore, mai per un album vero e proprio di canzoni).

È la mossa che forse in molti si stavano aspettando, il dichiarare nero su bianco quello che ormai i fan, anche quelli più affezionati, non hanno timore di dire apertamente: i Bad Seeds non esistono più, da diversi anni è Warren Ellis a guidare la baracca. È una vera e propria pietra della discordia, il ruolo del barbuto violinista/produttore/arrangiatore nel processo artistico di Nick Cave. Piaccia o meno, da quando c’è lui in carica (più o meno da quando Blixa Bargeld e Mick Harvey sono usciti dalla partita) il sound dell’ex Birthday Party è cambiato parecchio, dapprima entusiasmando i più con una rinnovata vena creativa (“Push the Sky Away”), in seguito ammorbando lo zoccolo duro maggiormente attaccato al maledettismo del nostro, che lo ha a più riprese accusato di essere divenuto innocuo e soporifero (“Ghosteen”).

In mezzo c’è stata la scomparsa del figlio Arthur, un lutto che lo ha spinto a buttarsi nelle braccia del suo pubblico come mai aveva fatto prima, il tour di “Skeleton Tree” a rappresentare una vera e propria catarsi; da lì, un’esigenza del tutto nuova di comunicare sé e di non rituffarsi nella solitudine, prima col format “Conversations with Nick Cave”, poi col “Red Hand Files”, da ultimo vendendo tutta una serie di oggetti strambi dal suo sito ufficiale (quest’ultima iniziativa, hanno malignato alcuni, per garantirsi degli introiti in assenza di concerti).

È stato criticato anche per la sua presunta mancanza di coerenza: nel pieno del primo lockdown è intervenuto più o meno a gamba tesa contro le dirette streaming che in quelle settimane imperversavano, sostenendo che quel momento di forzato silenzio dovesse essere utilizzato dagli artisti per riflettere sul proprio posto e ruolo nel mondo. Salvo poi annunciare in pompa magna il “Live At Alexandra Palace”, un concerto venduto come una diretta rigorosa (con tanto di impossibilità di mettere in pausa il video) che è poi uscito in doppio cd (e film, se non avessero chiuso i cinema la settimana prima) per la gioia di tutti coloro che non se l’erano sentita di sborsare 16 sterline.

Indipendentemente da che opinione possiate avere oggi su di lui, il Nick Cave odierno è un artista profondamente diverso da quello di “Tender Prey” e “Murder Ballads” ma anche di “The Boatman’s Call”, il disco che lo declinò per la prima volta al 100% in modalità crooner. Le discussioni (anche molto accese) che si stanno facendo in merito, le capisco perfettamente e sono del tutto normali: parliamo di versioni diverse dello stesso autore, è naturale che ad una stessa persona non possano piacere tutte quante.

Io personalmente me la cavo nella maniera democristiana che da sempre mi contraddistingue e dico che non ho nessun problema col Cave di questi ultimi album e neppure con “Carnage”. Il quale, mi sembra il caso di dirlo, risulta decisamente più fruibile di “Ghosteen”, non solo perché più snello nella formula ma anche per un maggior ricorso alle aperture melodiche e a soluzioni che potremmo definire manieristiche ma pur sempre efficaci.

Realizzato durante il lockdown (o per lo meno così hanno detto) da un’unica session in cui i vari brani sarebbero fuorusciti in maniera facile e spontanea, “Carnage” è un lavoro dove Warren Ellis conduce le redini del gioco, mettendo tutto il suo armamentario, violini, orchestrazioni, glitch ed elettronica varia, al servizio delle idee del suo datore di lavoro. Gli otto brani che ne risultano non hanno sempre una struttura canonica, sono a tratti declinati attraverso lo spoken word ma nel complesso sposano le soluzioni degli ultimi otto anni con, al massimo, un senso di ansia opprimente che riflette il periodo storico eccezionale che stiamo vivendo.

“There are some people trying to find out who/There are some people trying to find out why/There are some people who aren’t trying to find anything/But the kingdom in the sky” sono i versi che aprono “Hand of God”, parafrasati anche in altri episodi lungo questo lavoro e dicono perfettamente di canzoni che si muovono tra apocalisse e redenzione. C’è un fiume (da sempre simbolo di purificazione e salvezza nell’immaginario biblico) ed un protagonista che sembra volerlo raggiungere; il tutto mentre la “mano di Dio” si staglia nel cielo, quasi fosse quel racconto famoso di Buzzati, dove tutti correvano, un po’ ipocritamente, a confessarsi perché la fine del mondo era arrivata.

Nell’ultimo brano, che s’intitola “Balcony Man”, un personaggio che pare riflettere la prospettiva dell’io narrante per tutto l’arco del disco, viene detto semplicemente che “What doesn’t kill you just makes you crazier”.

In mezzo, c’è più volte evocata l’idea della partenza, della fuga da non si capisce bene che cosa, oppure c’è una coppia che passa in rassegna una serie di posti e ammette laconicamente che quell’estate non andrà da nessuna parte; o ancora, una statua di non si sa chi, abbattuta dai manifestanti in una delle tante proteste da “Cancel Culture” di questi ultimi anni, che però prende vita, come in un sogno allucinato, trasformandosi in una caricatura di George Floyd. E ancora, gente che va in giro con fucili d’assalto minacciando di sparare in faccia all’interlocutore, improvvisi squarci di attesa per un regno dei cieli che è lì da venire, il solito “Balcony Man” che legge Flannery O’ Connor con in mano una matita per sottolineare i passi più importanti.

C’è dentro tutto il nostro mondo, con le speranze, le paure e le delusioni, in questo “Carnage”, e non a caso Claudio Todesco lo ha definito “il disco definitivo sul lockdown”, anche se di base non si può dire che parli di questo.

Il tutto ricamato con una formula basilare, fatta di partiture d’archi che interagiscono con tappeti di elettronica (“Hand of God”), violini lancinanti, distorsioni ed atmosfere scure (“Old Time”), spoken word con un’orchestrazione che diviene sempre più opprimente e che sfocia in un’improvvisa apertura messianica (“White Elephant”), ballate pianistiche appena punteggiate dagli archi e ammantate di una tristezza che non è però mai disperazione (“Albuquerque”, “Balcony Man”).

Non è un disco semplice ma è di sicuro più fruibile del suo predecessore e non solo perché è più breve: sembra nel complesso più ispirato, come se penetrare l’istante, abbracciando concretamente la contingenza storica, abbia davvero dato modo a Nick Cave di riflettere sul suo essere artista e su una sua ipotetica responsabilità nei confronti del mondo, così come aveva esortato i suoi colleghi a fare.

È un Nick Cave che ha intrapreso un itinerario che potrà anche non piacere, ma è onestamente difficile dire che abbia smarrito il talento o le cose da dire. Forse non è poi così difficile, non ci sono poi così tanti messaggi nascosti. Forse, come canta nella dolcissima title track, “It’s only love with a little bit of rain”. E poi aggiunge: “I hope to see you again”. Lo speriamo davvero tutti, di vederlo e di vederci di nuovo.


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