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REVIEWSLE RECENSIONI
04/02/2018
Machine Head
Catharsis
Ciò che rende affascinante Catharsis è l’entusiasmo che i Machine Head sanno trasmettere all’ascoltatore con le loro canzoni. È il bisogno di sovvertire la routine, la voglia irrefrenabile di suonare, di fare confusione come un branco di adolescenti in sala prove, senza fare troppa filosofia.

Al netto delle apparenze, l’Heavy Metal è un genere tendenzialmente conservatore. Ne sanno qualcosa Iron Maiden e Judas Priest, non certo un manipolo di sovversivi, dal momento che entrambe le band hanno subito pesanti critiche quando, era il 1986, hanno osato introdurre le tastiere rispettivamente in Somewhere in Time e Turbo, nel tentativo di aggiungere un po’ di colore a un sound ormai consolidato. Da allora, tanta acqua è passata sotto i ponti, ma, a conti fatti, neppure troppa. Per cui va dato atto a Robb Flynn & Co. di avere un certo fegato nel voler cambiare una formula, quella dei Machine Head, che ha dimostrato a più riprese di funzionare piuttosto bene.

I più recenti Unto the Locust e Bloodstone & Diamonds, infatti, hanno consolidato una carriera che, nei primi anni Duemila, sembrava decisamente stesse deragliando, dopo che due album come The Burning Red e Supercharger, che flirtavano più o meno apertamente con il Nu Metal, erano stati accolti molto male, specialmente negli Stati Uniti, azzerando completamente il coro di lodi che si era innalzato all’indomani della pubblicazione dei primi due lavori, Burn My Eyes e The More Things Change. Per restituire rispetto e credibilità ai Machine Head, ci sono voluti prima una canzone come “Imperium”, un omaggio non dichiarato ai migliori Judas Priest, e poi un album come The Blackening, nel quale non si sprecavano riferimenti a Metallica, Iron Maiden e Pantera.

Prodotto dallo stesso Flynn assieme a Zack Ohren, Catharsis è un lunghissimo viaggio di settantacinque minuti all’interno della mente dei Machine Head, una band che, dopo ventisette anni di carriera e nove album in studio, ha deciso che era venuto il momento di sparigliare le carte e suonare letteralmente quel che le pareva, senza sovrastrutture particolari e senza dover per forza di cose dimostrare qualcosa a qualcuno. Ascoltando le quindici canzoni che compongono l’album, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di playlist nella quale Robb Flynn, Dave McClain, Phil Demmel e Jared McEachern hanno riversato tutto ciò che a loro piace suonare, secondo i gusti e la sensibilità attuali di ognuno.

Ne risulta perciò un lavoro un po’ schizofrenico e abbastanza autoreferenziale, con il quale i Machine Head sfidano l’ascoltatore a seguirli in più direzioni contemporaneamente. Infatti se in “Beyond the Pale” emerge in pieno il lavoro di semplificazione generale della struttura delle canzoni (meno riff e più groove, in sostanza), nella lunga e complessa “Heavy Lies the Crown” sorprendono le orchestrazioni e l’arrangiamento. E a bilanciare canzoni dritte come “Volatile” (un vero e proprio pugno in faccia, che si apre con un programmatico «Fuck the world»), “California Bleeding”, “Kaleidoscope” e “Triple Beam” c’è “Bastards”, una Folk song fatta e finita che sembra uscita dal repertorio dei Dropkick Murphys.

Alla fine dei conti, ciò che rende affascinante Catharsis è l’entusiasmo che i Machine Head sanno trasmettere all’ascoltatore con le loro canzoni. È il bisogno di sovvertire la routine, la voglia irrefrenabile di suonare, di fare confusione come un branco di adolescenti in sala prove, senza fare troppa filosofia. Lungi dall’essere un album perfetto – anzi! – Catharsis è però un lavoro ribelle, vivo e pulsante. Tutto ciò che il Rock e il Metal dovrebbero essere.