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REVIEWSLE RECENSIONI
15/11/2017
Matt Cameron
Cavedweller
Niente di nuovo sotto il sole: siamo sempre dalle parti del suono dinamico e vagamente radiofonico degli ultimi Pearl Jam, con giusto uno spruzzo di psichedelia qua e là

A pensarci bene, era ora che Matt Cameron decidesse di debuttare come solista. Negli anni il batterista americano non si è solo limitato a sedere dietro le pelli ma ha sempre dato un contributo essenziale a livello di songwriting, soprattutto per quanto riguarda i Pearl Jam. Le sue session assieme ad Eddie Vedder, un po' vacanza, un po' lavoro, hanno dato buoni frutti nel periodo di “Binaural” (c'è un’ottima “Education”, all’epoca scartata e poi ricomparsa nella raccolta “Lost Dogs”) ma i due hanno firmato anche un brano importante come “The Fixer”, magari non imprescindibile, ma comunque un singolo di discreto successo degli ultimi anni.

Terminato un tour americano coi Temple of the Dog fatto apposta per tutti gli orfani inconsolabili del sound di Seattle, di nuovo on the road coi Soundgarden, nel giro di date conclusosi con la tragica morte di Chris Cornell, Cameron ha finalmente trovato il tempo per pubblicare un lavoro a cui si stava dedicando già da diversi anni e che era ormai pronto da mesi.

“Cavedweller” (un nome che, se ho capito bene, aveva già usato in gioventù, per presentare il suo primo progetto musicale) è un disco molto agile, nove canzoni per poco più di trenta minuti di musica e mostra il batterista nel ruolo di assoluto mastermind, compositore ed esecutore delle proprie composizioni, con l’unico, prezioso aiuto di Tim Lefebvre e Mark Guiliana (conosciuti dal pubblico rock soprattutto per il loro lavoro su “Blackstar” di David Bowie).

Niente di nuovo sotto il sole: siamo sempre dalle parti del suono dinamico e vagamente radiofonico degli ultimi Pearl Jam, con giusto uno spruzzo di psichedelia qua e là (“Mi piace molto Syd Barrett”, ha dichiarato Matt a Rolling Stone) che non risulta però determinante nel plasmare un sound che, gira e rigira, rimane pur sempre parte della naturale evoluzione in rock da stadio della componente più Mainstream del Grunge.

Molto buone le prime due tracce, “Time Can’t Wait” e “All At Once”, potenti e incalzanti al punto giusto, due brani tutto sommato in linea col repertorio più recente della sua band principale. Nel prosieguo, le atmosfere si fanno più distese e in qualche modo più ammiccanti, con la comparsa della chitarra acustica a sostenere la ritmica e il tentativo (solo parzialmente riuscito) di creare ritornelli memorabili: “Blind” e in particolare “One Special Lady” ne sono due perfetti esempi e risultano abbastanza ben riusciti, nonostante la sensazione di deja vu sia piuttosto presente.

Il resto del disco, purtroppo, scorre via piacevole ma inoffensivo, con qualche sussulto giusto nella strumentale “Into the Fire”, che si distingue per un buon lavoro ritmico.

A lasciare perplessi è soprattutto la voce: Cameron non è mai stato un cantante vero e proprio e pur essendo impeccabile nelle backing vocals dal vivo, lui stesso ha dichiarato che confrontarsi in continuazione con due mostri sacri come Eddie Vedder e Chris Cornell non ha certo contribuito a fargli acquisire sicurezza in questo campo.

Ha scelto di cantare in prima persona tutti i pezzi e, almeno dal mio punto di vista, è stato un grosso errore, probabilmente quello che alla lunga peserà di più sul modo in cui “Cavedweller” verrà percepito. La sua voce è fin troppo esile, dotata di un timbro anonimo, poco incisivo. Ideale per i cori, appunto, non certo per essere messa in primo piano. Aggiungiamo a questo la scelta (forse obbligatoria, a questo punto) di tenerla molto dentro il mix principale e avremo una idea precisa del mancato funzionamento del prodotto finale.

Già, perché la sensazione è che se cantate da qualcun altro, queste canzoni sarebbero potute risultare più incisive, ne sarebbero uscite meglio valorizzate. Ma sarebbe stato possibile fare diversamente? Matt Cameron che, al debutto solista dopo 30 anni da gregario, decide di rinunciare a cantare? Difficile immaginarlo.

E allora diciamo che questo disco risulterà imprescindibile per i fan di Pearl Jam e Soundgarden, per il quale il batterista è soprattutto un amico da supportare sempre e comunque. Tutti gli altri possono pure passare oltre: lo dico con dispiacere perché gli voglio molto bene ma temo che entro la fine dell’anno ci saremo già dimenticati di questa uscita.