È un aneddoto che non ha nessun significato, ma siccome mi è venuto in mente lo riporto e aggiungo un tocco di sano nonsense a questo pezzo: nel 2018, in questo stesso luogo, si esibirono i Coma_Cose, che erano ancora nella fase in cui poteva valere la pena andarli a vedere (oggi mi dico spesso che dovrei rimuovere dal web tutto ciò che ho scritto di loro nei primi anni, perché quello che sono diventati è decisamente da ufficio inchieste). Ad un certo punto hanno attaccato “Mi ami?”, nello sconcerto generale del giovanissimo pubblico, che si stava probabilmente domandando se si fosse trattato di un brano inedito. La conoscevamo io e i miei amici e, a seguito di un rapido sguardo attorno, tutti quelli che sembravano avere dai trent’anni in su (molto pochi, si trattava di un act dal seguito ancora radicalmente giovanile).
Cosa voglio dire, con questo? Assolutamente nulla, come ho anticipato. Lo racconto perché un po’ mi incuriosisce questa coincidenza di luoghi: un omaggio ai CCCP nello stesso posto dove, anni dopo, i CCCP riuniti verrano ad esibirsi.
Perché alla fine si sono riuniti, i CCCP. Lo hanno fatto diversi anni dopo che Vasco Brondi aveva urlato che “non ci sono più”, in non ricordo più quale canzone del primo disco de Le Luci della centrale elettrica. Dopo anni di cover di “Emilia paranoica” da parte di band famose e meno famose.
Sembrava assurdo, impossibile, che succedesse. E invece è successo, proprio nel momento storico probabilmente più estraneo ad un progetto del genere. È una cosa che penso dalla scorsa primavera, quando li vidi live al Carroponte in un concerto che avrebbe dovuto tenersi all’Alcatraz e che invece fu spostato a causa dell’enorme richiesta: i CCCP sono tornati, è vero, ma hanno anche dimostrato di essere invecchiati, e non per forza di averlo fatto bene. Non fraintendetemi, il concerto era stato bello, e questo di Legnano lo è stato ancora di più (molto ha fatto anche la location, il Carroponte è un abominio, avessero suonato anche nel profondo dell’Inferno sarebbe stata un’esperienza più piacevole).
Il punto, semmai, è il senso di un’operazione del genere, quello che dice a noi oggi, nel 2025. All’inizio avrebbe dovuto esserci solo una mostra. Una bellissima mostra, tra l’altro. Un evento culturale di una certa rilevanza, esaustivo e puntuale nel far comprendere l’importanza di un fenomeno che, prima ancora che musicale, fu soprattutto di costume. La mostra venne inaugurata con un evento, il “Gran Galà Punkettone”, con i quattro che si esibirono per due serate di fila in un breve set di classici. Poi venne annunciata una data a Berlino (la città dove Ferretti e Zamboni si conobbero dando il via a tutto) presentata come unica e irripetibile, ma ben presto triplicata a causa del sold out pressoché istantaneo.
In molti investirono tempo e denaro in quello che poteva sembrare un vero e proprio appuntamento con la storia (o piuttosto, un ritorno di essa) per poi scoprire, una volta archiviate quelle date, che ci sarebbe stato un vero e proprio tour in giro per l’Italia.
Ora, io personalmente non mi sono mai unito al coro degli indignati: che fosse una mera operazione di marketing era chiaro sin da subito, così come è abbastanza evidente che il gruppo abbia sempre cavalcato questo aspetto con grande disinvoltura. È una reunion, e le reunion si fanno per soldi, è inutile scandalizzarsi.
Piuttosto, colpisce il numero di persone che si è mosso per assistere a questi concerti: tutti quelli che c’erano all’epoca hanno giurato e spergiurato che mai nella maniera più assoluta questo gruppo aveva riempito posti così capienti nei suoi anni d’oro. Non è molto diverso da quello che succede da diversi anni in tutte le reunion di band più o meno di culto: dai Pavement agli American Football, la voglia di esserci a tutti i costi risulta essere molto maggiore del seguito che questi act avevano all’epoca.
Nessuno si scandalizzi, dunque, se con questo ultimo giro di giostra i quattro riusciranno a portarsi a casa una cospicua pensione: all’epoca raccolsero decisamente meno di quanto avrebbero meritato e direi che l’importanza che hanno avuto nelle vicende della musica italiana fa sì che si meritino questo e altro.
Il cortile del Castello di Legnano è un luogo suggestivo, utilizzato come spazio per concerti estivi già da diversi anni, sopratutto nell’ambito della rassegna Rugby Sound. Affluenza più che soddisfacente, considerato che di occasioni per vedere il gruppo ce ne sono ormai state parecchie. L’età media è ovviamente alta: reduci degli anni d’oro e quarantenni-cinquantenni che non c’erano allora ma che li hanno scoperti in una fase in cui la musica diventa un fattore identitario. Qua e là c’è qualche giovane, che se non è a seguito di un genitore si configura come la proverbiale eccezione alla regola che vuole i CCCP come un residuo del passato: splendido da evocare, profondamente scomodo provare a riviverlo.
Lo spettacolo, pur con qualche variazione nella setlist, è identico a quello dello scorso anno: al nucleo originario Ferretti/Zamboni è stato aggiunto un ensemble di cinque musicisti: Luca Rossi al basso, Simone Filippi alla batteria, Simone Beneventi a percussioni e tastiere, Gabriele Genta alle percussioni ed Ezio Bonicelli alla chitarra e al violino. È evidente la volontà di distaccarsi dai live grezzi ed essenziali delle origini: adesso il suono è ricco, a tratti maestoso, la presenza del violino offre una profondità inedita ad alcuni degli episodi più melodici, mentre la sovrabbondanza di percussioni rende più ricche le dinamiche, senza peraltro nulla togliere alla furia primigenia delle composizioni maggiormente ispirate al Punk, che vedono comunque la presenza della batteria elettronica, come agli inizi.
È in effetti comprensibile che il ritorno del gruppo non sia avvenuto in termini prettamente filologici, ma che ci si sia preoccupati di distaccarsi dal proprio marchio identitaria per cercare di offrire al pubblico il miglior spettacolo possibile.
Il concerto è lungo (due ore abbondanti) e coinvolgente, anche dal punto di vista visivo: in questo Annarella Giudici e Danilo Fatur giocano un ruolo preponderante, la prima, oltre ai recitativi che rievocano lo spirito dei tempi e provano anche ad inquadrarlo all’interno delle dinamiche del presente, anima le varie canzoni attraverso i suoi costumi e rappresenta il principale veicolo espressivo dell’estetica sovietica del gruppo. Fatur non fa mancare le sue performance surreali e vagamente situazioniste, rappresentando a mio parere l’elemento più datato dell’identità del gruppo, nonostante l’indubbia vitalità e simpatia che ancora oggi lo contraddistinguono.
Zamboni, al netto di qualche isolata sbavatura, dimostra come sempre uno stile impeccabile e la sua chitarra marchia a fuoco tutto lo show, a cominciare dall’inno dell’Unione Sovietica evocato dalla marziale “Aja ljubljiu SSSR”. Giovanni Lindo Ferretti salmodia i suoi testi dietro al microfono, non ha bisogno di ricorrere a trucchi scenici o a una gestualità enfatica, il suo carisma riesce a rendere affascinante anche il leggio, ormai parte integrante della sua figura scenica.
La fine della Guerra fredda ha senza dubbio reso obsoleti i CCCP, che non a caso si erano sciolti e trasformati in qualcos’altro. Oggi, come abbiamo detto all’inizio, la riproposizione di un progetto così tanto contestualizzato all’interno di un determinato periodo storico, ha reso urgente la domanda su quanto ancora funzioni una rappresentazione del genere, su quanto ancora possa parlare al nostro presente politico e sociale o se, al contrario, possa fungere esclusivamente da nostalgica rievocazione dei bei tempi andati.
La verità, per quello che mi riguarda, sta nel mezzo: vedere dal vivo i CCCP nel 2025 è senza dubbio un’occasione preziosa per tutti coloro che all’epoca non c’erano, serve a vivere in prima persona un repertorio di canzoni che hanno segnato un’epoca e contribuito non poco alla formazione della scena indipendente italiana. Per quanto possa essere uno spettacolo “vecchio”, è anche vero che gli spunti di attualità non mancano: i quattro hanno saggiamente dichiarato di non aver voluto scrivere pezzi nuovi, e in questo senso hanno già fatto capire quale fosse l’intento di questa reunion.
Detto questo, è comunque apprezzabile un certo tentativo di attualizzare il discorso: se il Patto di Varsavia non esiste più, la Nato è ancora via e vegeta e il recente piano di riarmo europeo apre scenari contraddittori innescando cortocircuiti politici: ne hanno fatto qualche accenno durante i brevi intermezzi recitati che hanno scandito il concerto, dando l’impressione che un certo tipo di narrazione possa anche essere riproposta in chiave più attuale. Stessa cosa con “Radio Kabul”, che diventa a tratti “Radio Mosul” e vede l’inserimento di riferimenti al Donbass e al Nagorno Karabakh; al contrario, “Emilia paranoica”, con l’enorme bandiera del PCI e i bombardieri che continuano a sorvolare Beirut e non, che so, Gaza o Teheran (posto che comunque anche la capitale del Libano è stata al centro delle cronache negli ultimi tempi), dimostra oggi tutti i suoi quaranta anni, nonostante costituisca sempre un piacere immenso ascoltarla.
In definitiva, se lasciamo da parte queste contorte osservazioni e ci concentriamo sulla sostanza dell’iniziativa, con la sua natura inevitabilmente temporanea, i motivi di soddisfazione non mancano: ascoltare finalmente dal vivo tutti questi classici, con una formazione di musicisti adatta a valorizzarli, è un’esperienza che siamo contenti di avere fatto.
Il menu è ampio e nonostante manchi qualcosa (“Live in Pankow” non è stata inserita neppure in questa leg ed è un vero peccato, anche se non è escluso che il motivo sia che i nostri la reputassero davvero superata) le ragioni per cui i CCCP sono tra le cose più belle uscite dall’Italia musicale le abbiamo quasi tutte: oltre agli episodi più grezzi e tirati come “Io sto bene” (ecco, il disagio esistenziale espresso dal testo può funzionare anche oggi, in quest’epoca di liberismo selvaggio e perdita di riferimenti), “Rozzemilia”, “Stati di agitazione”, “Valium Tavor Serenase”, “Curami”, “Spara Jurij”, che provocano tutte un bel putiferio nelle prime file, funzionano benissimo anche quelli più influenzati dal liscio e dalla tradizione popolare romagnola (“Oh! Battagliero”, “Guerra e Pace”, “And the Radio Plays”) nonché quelli più musicalmente ricercati e complessi, che innalzano decisamente la qualità del concerto: “Maciste contro tutti” è meravigliosa, con i suoi continui cambi di intenzione, ma anche le sonorità orientaleggianti di “Punk Islam” o le incursioni nel sacro di “Libera me Domine” e della sempre emozionante “Madre” (che Ferretti arricchisce inserendo una strofa in più con le litanie mariane in latino, come già faceva eseguendola da solista, giusto per non lasciare dubbi sulla connotazione cristiana del brano) sono motivi più che validi per considerare imperdibile questo ritorno del gruppo.
Il finale, con una “Amandoti” sostenuta dal solo violino e la voce di Ferretti quasi coperta dal singalong del pubblico, gli altri sette immobili sul palco e Annarella con un cartello dall’eloquente “-5” in mano (sono gli show che mancano prima che tutto questo finisca di nuovo) risulta poi particolarmente toccante e, in un certo senso, emblematico.
“Vi amiamo anche noi, in un qualche modo particolare, perché se voi non foste lì, noi non saremmo qui” ha detto il cantante rispondendo ad un grido proveniente dal pubblico. “Prima era troppo presto. Adesso sembra tardi, ma adesso è il nostro tempo. Tra passato, presente e futuro, in fedeltà, la linea c’è”. Lo ha detto Annarella in uno dei primi monologhi del concerto. Ci sembra la migliore descrizione di quello che sono stati i CCCP, comprensivi di questo ritorno a quarant’anni di distanza: se davvero si tratterà dell’ultima chiamata, possiamo dire che il cerchio si sia chiuso nella maniera migliore possibile.
E se ci sarà una prossima fase, potrebbe essere azzardato sperare che sia all’insegna dei CSI…