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REVIEWSLE RECENSIONI
08/10/2025
Glenn Hughes
Chosen
“The Voice Of Rock” è un titolo onorario che Glenn Hughes mantiene brillante anche a settantaquattro anni, grazie ad attività discografiche e concertistiche ancora molto dense e dove nulla viene lasciato al caso. Se il cantante e bassista decide di tornare al progetto solista dopo quasi dieci anni è perché ha qualcosa di urgente da dire e suonare, per un “Chosen” che potrebbe essere l'ultimo lavoro in studio che porta il suo nome.
di Iputrap

Nel 1986 Glenn Hughes è un uomo e un artista perduto. Fisicamente gonfio e totalmente immerso nel consumo di sostanze nocive e senza alcun tipo di senso e controllo. In studio la sua voce è ancora quella di un angelo rockettaro, ma non riesce più a fare concerti e si ritrova, a trentacinque anni, a essere considerato un rudere artistico antico e superato. Il fantasma dei Deep Purple e dei Trapeze è pesante e il cantante inglese si ritrova a partecipare a diversi progetti solo per incassare un po' di liquidità e cercare di sopravvivere.

E’ con questa maldestra filosofia che Glenn si ritrova a cantare divinamente in un disco solista di Toni Iommi che diventa, per la legge del mercato, un album dei Black Sabbath, ma quella che potrebbe essere la sua salvezza si perde nel nulla, tra un Hughes costretto a fare il metallaro senza troppa convinzione e una forma fisica che gli brucia la voce. Dopo qualche patetico concerto in cui Glenn finge di cantare e viene supportato dall’ugola dietro le quinte del sodale Geoff Nicholls, l’unica soluzione rimane quella di abbandonare tutto.

 

La svolta arriverà lentamente ma grazie all’arrivo di una nuova spiritualità e con l’aiuto concreto di amici come David Coverdale e John Norum, che gli danno la possibilità di contribuire vocalmente nei loro dischi, mentre la pulizia dell’anima era parallela anche a quella fisica. Dai primi anni novanta la presenza artistica di Hughes non è più mancata per i fan, deliziati da una manciata di album solisti di grande qualità e intensità, e implementata da felici collaborazioni con John Lynn Turner e di nuovo l’amico Toni Iommi.

Dal 2010 in poi, il basso e la voce di Glenn hanno ricercato con insistenza il lavoro di band più organiche, ed ecco arrivare il supergruppo Black Country Communion tra idilli, separazioni e ritorni, l’esperienza grintosa ma estemporanea dei California Breed e l’ultima zampata da tigre con i The Dead Daisies, conclusasi dopo un’intensa parentesi di quattro anni e due album in studio.

 

Possiamo affermare che ora Glenn Hughes sia un artista appagato e totalmente sereno, che continua a portare sporadicamente sul palco la musica mitica dei Deep Purple Mark III/IV e ora deciso a dare voce ai suoi pensieri maturati negli ultimi anni e certamente amplificati dal periodo Covid. Se l’ultimo lavoro solista Resonate è del 2016, questo successore, Chosen, arriva per una necessità personale e non certo per calcoli commerciali, pregno di liriche intime e che parlano di guarigione spirituale e di un bilancio finale che non può che essere positivo, per un musicista che calca le scene dal 1968 e che possiede anche oggi una vocalità unica e riconoscibile tra tutte.

Ci sta quindi che questo ritorno sia celebrato in modo sobrio ed essenziale, anche se si dice che potrebbe essere l’ultimo lavoro solista di sempre per una vecchiaia che però non traspare da una prestazione canora sempre brillante, anche se un po' più controllata e misurata rispetto a qualche lustro fa, e un suono di basso pieno, rotondo e sensuale. Si parla troppo poco del Glenn Hughes bassista e certamente risulta un po' sottovalutato, anche in queste nuove dieci tracce suonare impeccabilmente dal maestro e dalla sua band di supporto.

 

Succede però quello che abbiamo sentito un po' troppo nella recente discografia di Hughes: tutto è come dovrebbe essere, tra rock ruvido, tentazioni funk e una compattezza notevole, ma anche già sentito e perfettamente prevedibile. Appunto, nulla è fuori posto e c’è troppa compostezza in questo incedere che dovrebbe sorprendere ed eccitare, e invece scalda solo tiepidamente. Il rock non dovrebbe essere così educato, caro Glenn!

Forse la tua penna si è un po' spenta, forse il chitarrismo di Soren Andersen non crea e illumina come dovrebbe, ma il disco si lascia ascoltare senza graffiare troppo. Dal settimo brano, un’accademica “Hot Damn Thing”, il pathos scema sempre di più e non si rialzerà più. I capolavori del passato ci sono e ci accompagneranno sempre, in questo caso possiamo solo parlare di un lavoro dignitoso, che chiude una storia miracolosa e leggendaria.