Potremmo liquidare la faccenda dichiarando che gli Young Fathers sono la versione N.E.R.D. dei Tv On The Radio e che la copertina di “Cocoa Sugar” è un riuscito tributo - forse involontario - a Jean-Paul Goude e alla foto che introduce quel capolavoro di concept artistico che è “Slave To The Rhythm” di Grace Jones. Poche righe comunque sufficienti a trasmettere il senso di appagamento indotto dall’ascolto del terzo album del trio di Edimburgo, un modernissimo spaccato di alternative rap con influenze di tutti i tipi, come è d’obbligo per chi è abituato, per forma mentis, a mescolare cose suonandole e campionandole. Un disco che ci fa dire ok, ci siamo, abbiamo capito, siete una band con enormi potenzialità.
Se, invece, vogliamo andare a fondo motivando la coppia di similitudini precedente, con il progetto di Pharrell Williams gli Young Fathers condividono la gioiosa e opulenta varietà stilistica riconducibile a quel modo di intendere la musica di matrice black con un pensiero fortemente all’avanguardia. Rispetto alla band di Tunde Adebimpe, David Andrew Sitek e Kyp Malone (per non fare torto a nessuno), il richiamo va invece alla sfacciata emancipazione da ogni cliché di genere. Un plus che consente di passare per gente superiore a ogni etichetta. Al contrario un limite, se pensiamo alla pigrizia di pensiero degli ascoltatori che, al cospetto di qualunque inquietudine ritmico-armonica, sono pronti a gettare ogni cosa nel calderone della musica di nicchia e a bollare gli artefici nel novero degli hipster.
Non che gli Young Fathers fossero estranei a standard qualitativi di questo tipo, a partire dall’acerbo “Dead”, così sperimentale da vincere il Mercury Prize nel 2014, passando per il non convenzionale quanto disordinato “White men are black men too” ascoltando il quale viene davvero da chiedersi se si tratti di un disco troppo bianco per essere nero o viceversa. Approdati alla Ninja Tune, il variopinto terzetto si è dato una regolata, mettendo in bella mostra le proprie composizioni come si fa nelle arti figurative quando si passa dallo schizzo all’opera d’arte vera e propria.
Il risultato conferma che ne è valsa la pena: la matrice ruvida continua a prevalere ma immersa in un contesto da cui è difficile skippare su qualcosa di diverso, perché perfettamente somigliante a quell’intransigenza che ciascuno di noi prova dentro di sé e a cui non dà sfogo se non traducendola in convenzione sociale. “Coca Sugar” è un disco così, da prendere o lasciare, solo che questa volta è tutto acchittato secondo la moda e in base a come vanno le cose oggi e, quindi, ha davvero le carte in regola per fare il botto perché straordinariamente originale.
Il merito va sicuramente all’abbondanza di spunti: l’electro-soul di “In my view”, “Tremolo”, “Holy Ghost”, la verve abstract e sperimentale di “Fee Fi” e “Lord”, il paradosso dell’old school rimodernata di “Border Girls” e persino alcuni rimandi no-wave mescolati all’hip-hop come “Wow” e “Toy”, fino alla cavalcata trance di “Wire”. Ovunque il ritmo è protagonista anche quando è assente giustificato, un efficace supporto alle voci tipicamente black e all’ostentata naturalezza con cui i “Young Fathers” masticano l’elettronica finalizzata a far rendere al massimo le loro canzoni.