“…forse più semplicemente siamo musicisti che non amano la stabilità, che preferiscono le piccole gemme ai grandi capolavori, e in cui la presenza dell’errore, della fragilità, del mostrarsi vulnerabili non è un difetto ma un valore aggiunto” (G. Salvo).
Il momento storico che viviamo consuma ogni cosa in un tempo non tempo; istanti, matrici numeriche saggiamente programmate che per loro natura poi divengono ricorsive e prive di contenuto. Non è contemplato lo spazio per le “cose”. Quel tempo piccolo significa soprattutto estetica di facciata. Eppure, nonostante tutto, ci sono dischi che ancora hanno quella forza di fermarlo il tempo attorno, di renderlo necessario. Che bella parola questa: vivere un tempo che si rende necessario. Diviene necessario fermarsi, diviene necessario contemplare per capire, e necessario è quel dover ascoltare di nuovo. Diviene necessità quella fame di gusto che, a sua volta, chiede di essere sfamato ancora e ancora.
Anguille è divenuto per me un punto fermo dentro questo tempo liquido ed è stato questo sin dal primo ascolto, che mi è giunto privo di identità e di informazioni a corredo. E come sempre, il primo ascolto che faccio è privo di riferimenti e di luce ad illuminare trofei e stendardi. Ho poggiato la puntina e ho ignorato i loro nomi. Ho veduto l’acqua muoversi lentamente, ho sentito il suono incastrarsi come un vecchio tessuto folk di un rigattiere moderno, ho sentito sulla pelle la necessità di una ferità che torni a farmi sentire fragile, che torni a parlarmi di realtà e di provvisorietà.
Il suono di questo nuovo disco dei Comaneci ha saputo somigliare alle forme che prende l’acqua quando, cheta e dolcemente armonica, porta con se la saggia attesa della rivoluzione. E nel disco, ad ascoltarlo ancora, sento come fosse una sorta di rabbia che preme sugli occhi e ci fa restare fermi in contemplazione lungo la strada di casa. Si rompe ogni sospensione e i Comaneci qui lo fanno con l’elettronica e con i silenzi, lo fanno con le derive strumentali dentro cui arrivano presagi scuri di voci scure di uomo, dentro cui si distendono momenti di luce bianca, di voce bianca di donna. Pastelli e melodie lunghe, solitudini, respiri, incantesimi e visioni contadine, perché Anguille porta con se anche la radice che arriva dalla nuda terra, dei luoghi che hanno ospitato le registrazioni di questo disco, perchè Anguille è la voce di chi alla nuda terra restituisce il suo personalissimo modo di stare al mondo.
Fermo Glauco Salvo per queste domande, lui che porta qui su Loudd la voce dei Comaneci. Anguille è un disco pieno di silenzi e io vi invito ad averne cura se mai voleste ascoltarlo.
Ho amato davvero molto questo disco. Ha così tante forme e direzioni che ho deciso di seguire solo quelle che arrivano d’istinto. E voi? Avete pensato alla forma prima di scrivere questo disco?
Siamo contenti che ti sia piaciuto e che tu l’abbia amato proprio per la sua natura multiforme. Il disco sta avendo una bellissima risposta e non possiamo che esserne felici. La storia della forma di Anguille è strettamente legata alle contingenze del periodo in cui è stato realizzato, abbiamo iniziato a lavorare a provini e bozze di Francesca a inizio 2020, lavorando all’ossatura dei brani e accennando una prima direzione di arrangiamento. Ci siamo poi trovati nell’impossibilità di vederci e abbiamo cercato di sfruttare il lavoro a distanza come un’occasione per intraprendere nuovi percorsi, le idee di partenza sono state a volte sconvolte, a volte semplicemente accompagnate verso la loro strada con strumenti di lavoro diversi. Il risultato, almeno alle nostre orecchie, è – come hai notato anche tu – multiforme, ma allo stesso tempo con una sua identità molto forte di disco: nei lavori precedenti l’impressione che avevo era di avere a che fare con raccolte di canzoni che testimoniavano bene un periodo specifico della nostra storia, questa volta mi sembra abbia una sua atmosfera più coesa, una sua identità.
Che poi la forma si perde anche dentro l’immagine e la faccia di questo disco. Astrazione pura, che certamente, di sottofondo, riconosceremmo delle anguille, ma è un sottofondo. Di base c’è una non-forma dentro ogni cosa, o sbaglio?
L’immagine del disco è merito di Francesca, che ha coinvolto l’artista giapponese Nuttsponchon, il quale ha fatto uno splendido lavoro che secondo noi riesce a legarsi molto bene alle sonorità del disco. In generale Francesca ha sempre proposto artisti e artiste diversi per ogni lavoro, considerando la copertina dei nostri dischi come uno spazio da lasciare a disposizione, come un piccolo spazio espositivo. L’immagine di Anguille è aperta, ci si può leggere degli elementi di forma ma anche abbandonare uno sguardo di “lettura” formale e rivolgere l’attenzione verso i colori e la materia dell’immagine.
Il disco è piano di silenzi, ci avete fatto caso? Silenzi che significano attese, che significano giuste cadenze delle cose e non fretta di celebrarle e di farle suonare. Questa è anche maturità per come la vedo io, ma per come la vedete voi? Sentite anche voi quanto silenzio c’è dentro questo disco?
Ci fa molto piacere che tu abbia notato questa cosa, che è una caratteristica del disco, e forse in generale del nostro approccio alla musica: cercare di realizzare i brani con pochi tocchi, spesso lavorando per sottrazione, assottigliando le fondamenta delle canzoni fino a trovare un equilibrio che forse ci affascina proprio per la sua precarietà.
E allora parliamo anche dei luoghi di Anguille. Sono luoghi diversi da un freddo studio di registrazione. Perché questa scelta di cercare dei luoghi? E che luoghi? Avete cercato dei luoghi precisi per il suono che volevate o avete raggiunto dei luoghi precisi dove far suonare un suono già misurato?
La scelta di non lavorare in studio di registrazione non è per noi una novità, Mattia Coletti, che ha lavorato in regia ad Anguille ma che è anche il nostro fonico per i concerti e che ha lavorato alla produzione anche di Rob a Bank e You a Lie, è attrezzato con uno studio mobile e con lui abbiamo sempre lavorato in spazi non convenzionali. In generale cerchiamo sempre luoghi che uniscano caratteristiche acustiche interessanti all’immersività della residenza artistica. In questo il Teatro Dimora L’arboreto di Mondaino è stato il luogo perfetto: il teatro è splendido, immerso nel bosco, con grandi vetrate, ha un bellissimo riverbero naturale e tanti spazi da sfruttare. Abbiamo realizzato lì le riprese degli strumenti nel luglio 2020, lavorando contemporaneamente a uno spettacolo audio-video insieme a Mara Cerri. Le voci sono state registrate poi a fine 2021 in una casa in collina a Cartoceto. Gran parte degli arrangiamenti e delle registrazioni dei suoni elettronici invece sono stati realizzati a distanza nei nostri piccoli studi casalinghi.
E dai luoghi che tipo di dialogo è giunto? Riverberi naturali, suoni reali da catturare. Quanto di questo disco è nato dal caso dei luoghi?
Tutti i luoghi sono stati importanti per la realizzazione del disco, per l’acustica delle stanze, che ha caratterizzato soprattutto voci e percussioni, ma anche per i suoni circostanti, che occasionalmente entrano nei brani sotto forma di field recording. C’è poi una componente emotiva legata ai luoghi, che non abbiamo mai trovato negli studi di registrazione canonici: non è quantificabile, forse neanche avvertibile dall’esterno nell’ascolto del disco, ma per noi rimane fondamentale, è il luogo in cui viviamo per quel periodo limitato, in cui mangiamo, dormiamo, litighiamo, leggiamo, discutiamo sulla direzione da dare alle canzoni, e rimane per noi inscindibile dal lavoro. L’idea stessa di studio di registrazione, di un ambiente non solo attrezzato per la registrazione ma anche controllato, in cui potenzialmente ogni registrazione può essere uguale all’altra e rispettare gli standard dell’alta fedeltà non è proprio nelle nostre corde; quindi, siamo felicissimi di lasciare che gli spazi contribuiscano, anche in modi non convenzionali, ai nostri dischi.
Avete fatto caso come questo disco da spesso ragione a sezione di drumming che disegnano marce, rullanti ostinati, fosse solo per qualche momento di arrangiamento, un po’ come fa sfacciatamente la intro del disco, “Listen”, è un caso? Oppure il tempo che viviamo è la ragione che ispira quest’ansia e questa ostinazione di determinare le cose?
In parte è un marchio di fabbrica del drumming di Simone, in Anguille in particolare si adattava bene all’immaginario e alle atmosfere dei brani; rientra comunque in quel mondo di cose di cui ci accorgiamo a posteriori, quando abbiamo uno sguardo più “esterno” sul disco. Sulla ragione simbolica preferiamo lasciare le strade aperte a chi vuole di trovarci il suo significato, di sicuro non è intenzionale da parte nostra, ma ciò non rende le suggestioni meno azzeccate. Per esempio, l’ostinazione è una delle tematiche di Anguille, ed è strettamente legata alla scelta del titolo del disco e al sentimento che ci è stato necessario per realizzarlo in un periodo di grande incertezza.
Parliamo di “The Tongue”? Partiamo dal fastidiosissimo effetto sulla voce. Lo sento spesso nelle produzioni moderne, non riesco a digerirlo e a codificarlo, ma riesco a vederne la bellezza. Quanto meno la contestualizzo pensando alla lingua come motore primo di chiacchiericcio di fondo che appunto, fa rumore e non fa capire, la trasmissione si interrompe, è incerta, disturbata.
L’effetto così marcato sulla voce è una novità per noi, abbiamo sempre utilizzato la voce di Francesca senza grandi elaborazioni, nel caso di “The Tongue” abbiamo deciso di filtrarla attraverso un effetto che la spingesse verso un territorio in cui è più suono e meno veicolo della parola, ed entrava in relazione in modo interessante con il testo e la parte strumentale, per la prima volta realizzata con elettronica pura, field recording e nastri magnetici; per questo abbiamo sentito il bisogno di rendere anche la voce uno strumento in qualche modo “elettrico”. Credo ci sia un buon equilibrio tra la leggibilità del canto e delle parole e la matericità elettronica della voce.
E che meraviglia il corredo di suoni: i grilli che sento sono veri? Sono grilli poi? E per restare sul tema, questo substrato metropolitano scuro, di cemento, che arriva dalle viscere, mi significa quanto dalle viscere arriva una lingua? O quanto alle viscere una lingua può arrivare?
Come dicevo per la parte strumentale di “The Tongue” abbiamo utilizzato esclusivamente field recording, elettronica (realizzata con un sistema modulare Doepfer) e nastri magnetici. Il brano è nato da una traccia vocale di Francesca, senza accompagnamento strumentale; ci intrigava l’idea di utilizzare per il brano come sorgenti sonore esclusivamente pulsazioni al limite tra lo spettro dell’udibile e del non udibile, a cui poi abbiamo aggiunto l’elemento esterno e più “reale” del field recording.
La magia pura si intitola “To the Water”: sento un ritorno alle origini, all’acqua, sento la casualità della composizione, sento e immagino che qui i Comaneci siano seduti attorno nel cercare una ragione al caos dei suoni; che poi la lenta cadenza come fanno le gocce, che poi è la quiete dopo la tempesta che incalza da quell’inizio che è stato “Listen”, ditemi la vostra.
“To the Water” è l’altro brano del disco insieme a “The Tongue” in cui non sono stati suonati strumenti in maniera tradizionale, anche se rispetto a “The Tongue” (in cui il suono è generato principalmente dall’elettricità) in questo caso sono stati usati solo strumenti acustici: il suono di una chitarra classica in cui è stato tagliato il suono della corda pizzicata, una cetra le cui corde sono fatte vibrare magneticamente, una chitarra suonata meccanicamente con un piccolo motorino rotante. L’immagine dell’acqua era già presente nella bozza di Francesca: poteva diventare una canzone più strutturata, ma abbiamo deciso di lasciarla così, un’immagine che ricorre identica a sé stessa, ripetitiva ma al contempo con una qualità liquida e cangiante. La casualità in realtà riguarda solo il tempo in cui ricorrono gli eventi sonori, anzi è stata finora la prima e unica volta nella storia dei Comaneci in cui è stata utilizzata una partitura scritta prima di registrare i suoni!
Anguille è anche un nuovo inizio forse, nuovi equilibri dentro ai Comaneci, se non sbaglio, che sia giusto o no comunque sento un meraviglioso senso di agitazione e di non equilibrio in questo disco. Non mi arriva (per fortuna) come fa una soluzione che risolve ma come fa un’ansia che intravede il problema. E lo fa con la maturità di chi sa mettere in conto tutto questo nel vivere in pace, vi lascio con questa sensazione poi non so, fatene quel che volete, commentatela come vi pare.
È una bellissima osservazione, forse è un nuovo inizio, forse è un’evoluzione naturale di quello che eravamo quattro anni fa alla pubblicazione di Rob a Bank, ma forse più semplicemente siamo musicisti che non amano la stabilità, che preferiscono le piccole gemme ai grandi capolavori, e in cui la presenza dell’errore, della fragilità, del mostrarsi vulnerabili non è un difetto ma un valore aggiunto. Speriamo quindi che, se si tratta di un inizio, ci porti ad altri equilibri precari, in cui il problema smette di essere un problema e diventa un’occasione per percorrere strade nuove e avventurose.