Si potrebbe dire qualsiasi cosa di Dave Grohl, ma non certo che sia uno stupido. Chiusa l’avventura Nirvana, ha massimizzato in termini mediatici quella militanza (che qualcuno direbbe marginale), battendo il ferro finché caldo e facendo spostare i riflettori sul progetto Foo Fighters, nato solo un anno dopo la morte di Kurt Cobain. Nel tempo, poi, ha costruito di sé stesso l’immagine di rocker springsteeniano, tutto casa e palco, sanguigno, sincero e piacione al punto giusto, conquistandosi le simpatie del pubblico e della stampa specializzata. E ancor di più, ha saputo creare un suono, immediatamente riconoscibile, che ha poi coltivato nel tempo con immutabile coerenza, figlia più del tornaconto economico (direbbero i detrattori) che di una genuina passione per la propria arte. Tanto che, a proposito dei Foo Fighters, si potrebbero dire le stesse cose che, più o meno si dicono degli Ac/Dc, e cioè che è da una vita che fanno sempre lo stesso disco. Certo, talvolta, dal cilindro di Grohl escono anche idee originali (un esempio per tutti, il giro degli States dell’ultimo Sonic Highways) e gli album della premiata ditta (vedi anche il nuovo Concrete And Gold) si avvalgono spesso di ospitate eccellenti, che accrescono ulteriormente l’appeal della proposta. Tuttavia, in testa all’ex batterista dei Nirvana, girano sempre, invariabilmente, due prototipi di canzone: il rock spaccone alla Monkey Wrench e la melodia di grana grossa alla Learn To Fly, tanto per citare un paio delle hit più famose della band di Seattle. Se l’ispirazione è alta (vedi, ad esempio, Wasting Light) la formula funziona a meraviglia; diversamente, Grohl, a cui diamo il merito, però, di non aver mai sbracato completamente, innesta il pilota automatico e si attesta sul minimo sindacale di scrittura. Esattamente ciò che avviene in Concrete And Gold, nono album in studio della band, che si avvale, in fase di produzione, degli offici di Greg Kurstin, mago del mainstream, e, in sala di registrazione, del cameo di un pugno di ospiti di primo piano, quali Paul McCartney (che suona la batteria in Sunday Rain), Allison Mosshart e, addirittura, Justin Timberlake (si, avete letto bene). Un ensemble di tutto rispetto, che però non riesce a incidere sulle sorti di un disco che più prevedibile di così era impossibile. Sul menù, infatti, ci sono sempre le stesse pietanze: suono potentissimo, riff di chitarra sferraglianti, la voce grossa di Grohl, talvolta addirittura in screaming (vedi il singolo Run) e melodie radiofoniche di facile presa. Metti il cd nel lettore e tutto è esattamente come (e dove) dovrebbe essere; se poi si alza il volume dello stereo al massimo, il risultato è assicurato e cinquanta minuti di sano divertimento non ve li toglie nessuno. D’altra parte, Grohl fa simpatia, esattamente come quei ragazzotti del luna park, tutto muscoli e un po’ guasconi, che dopo aver dato prova di forza al punchball, portano la fidanzata al chioschetto per mangiare lo zucchero filato. Sotto la canotta, un fisico possente e un cuore tenero da pubblicità della Coca Cola, pugni da vero maschio e languide carezze. E’ impossibile, allora, resistere alle chitarre tamarrissime di Make It Right, o al consunto deja vu’ da capelli al vento di Arrows (canzone che, con titoli diversi, ascoltiamo ripetutamente da nove dischi: se c’è piaciuta la prima volta, perché ora dovrebbe farci schifo?) o ancora, ai languori beatlesiani della morbida Happy Ever After (Zero Hour) (probabilmente, trasmessa per osmosi da Macca, che compare nella citata Sunday Rain). Tuttavia, a grattare sotto la patina luccicante del mainstream, stavolta si trovano davvero poche idee, e se si escludono la perfezione formale di T-Shirt (pillola sintetica del Grohl pensiero), il travolgente sali e scendi del singolo Run e la conclusiva e pinkfloydiana title track (brutta, certo, ma almeno “diversa”), tutto appare esattamente per quel che è: la pedissequa reiterazione di un suono standardizzato. Nel bene e nel male, questi sono i Foo Fighters dal 1995. Prendere o lasciare.