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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
29/01/2018
Depeche Mode in concerto
Cosa vogliamo davvero dai grandi del rock?
Se adesso dichiarassi che questo è stato il mio ultimo concerto dei Depeche Mode verrei sbeffeggiato per settimane. Poi, immancabilmente, al prossimo tour ci ricascherei e mi direbbero tutti che avevano ragione loro.

Sabato scorso sono andato a vedere i Depeche Mode a Milano. Era la leg invernale del “Global Spirit Tour” e quest’estate avevo visto due date di quella estiva, San Siro e Dall’Ara a Bologna. Non era per me un’esigenza vitale esserci ancora ma amo questa band alla follia per cui ho comprato il mio biglietto il giorno stesso di apertura delle vendite (che, per inciso, era lo stesso del concerto di San Siro. Cioè, tu vai a vedere una delle tue band preferite ma prima di uscire di casa devi ricordarti di comprare il biglietto per rivederteli sei mesi dopo. Trionfo del neocapitalismo più becero ma a noi va bene farci fregare quindi inutile lamentarsi).

Quelle che seguono sono semplicemente una serie di brevi riflessioni che ho messo in fila dopo aver assistito al concerto. Non si tratta di un vero e proprio report (l’ho già fatto a giugno e non è che ne scriverei uno molto diverso se ci fossi costretto) quanto di un commento a freddo su uno show che era molto atteso, da parte di un nome fondamentale, di cui volenti o nolenti bisogna parlare.

1) È ormai assodato che i Depeche Mode sia meglio vederli al chiuso, piuttosto che nei vasti spazi degli stadi. D’accordo, quegli spazi li riempiono alla grande, sono una band da stadio da tantissimi anni e in Italia sono tra i pochi nomi stranieri che si possono permettere di fare un sold out REALE anche alla cosiddetta “Scala del calcio”. Detto questo, tralasciando il fatto che quel posto ha un’acustica improponibile e che a giugno ho letteralmente buttato via i soldi, l’atmosfera che sanno creare all’interno di un’arena da diecimila posti o poco più, non ha paragoni. C’è una maggiore comunione tra pubblico e gruppo, un clima più raccolto che fa risaltare la potenza del suono e permette di godere appieno dei momenti più evocativi.

2) Il pubblico. Staremo anche parlando di una delle band più influenti di tutta la storia del rock ma il ricambio generazionale, almeno negli ultimi anni, non sembrano averlo provocato. Per carità, non ho fatto un’indagine statistica e sono sicuro che di adolescenti o giovani ce ne saranno anche stati. A occhio, però, l’età media era alta, decisamente alta. Il che, mi pare di poter dire, è in linea con quello che sta succedendo un po’ dappertutto con tutti questi gruppi. Il rock, almeno quello dei grandi nomi, è diventato una roba per vecchi e presto, dunque, potrebbe anche non esserci più. Non è un bene, non è un male. È un dato di fatto con cui occorrerà quanto prima fare i conti.

3) Di “Spirit” è stato detto e scritto molto: per alcuni era un capolavoro, per altri uno schifo immane. In mezzo, chi lo considerava tutto sommato un buon disco e chi riteneva che da una band al quarantesimo anno di carriera non si potesse attendere più nulla di nulla. Personalmente, io sono stato contento: mi sono un po’ stupito dal fatto che, a conti fatti, non sia riuscito ad inserirlo tra i miei migliori 25 dell’anno appena trascorso perché, a rileggere oggi la mia recensione, sembrava proprio che avrei dovuto farlo. Diciamo che sulla lunga distanza ha tenuto meno, diciamo che forse “Delta Machine” era nel complesso più godibile, più fluido, ma “Spirit” rimane un bel disco, poche storie. Lo sarebbe stato per degli esordienti, figuriamoci se non lo è per loro. Eppure questo rimane il lavoro meno rappresentato dal vivo in tutta la loro discografia. I numeri parlano da soli: cinque canzoni su dodici negli stadi, appena tre nei palazzetti (in pratica hanno resistito solo l’opener “Going Backwards”, il singolo “Where’s The Revolution” e “Cover Me”, che ha scritto Dave Gahan e che rimane una delle migliori; il minimo sindacale, insomma). Non erano mai state così poche in precedenza e solo tre anni prima, “Delta Machine” aveva modellato in maniera significativa la setlist. Che cosa vuol dire? Al di là di qualunque speculazione, è evidente che la band non le ritiene adatte ad essere proposte o, piuttosto, che ha preferito puntare ancora di più sui classici rispetto a quanto non avesse già fatto prima. Pensate quello che volete ma il nome “Global Spirit Tour” a questo giro stava stretto, molto stretto.

4) Come hanno suonato? E come volete che abbiano suonato? Davvero abbiamo ancora bisogno, nel 2018, di puntualizzare che i Depeche Mode sono bravi dal vivo? Assistere ad un loro concerto è ancora oggi un’esperienza fuori dal comune: Dave Gahan è il più grande frontman del pianeta e poco importa che abbia dichiarato che ormai più di due ore di fila non le regge più: si muove meno di prima, certo, ma vocalmente e fisicamente fa ancora paura. Martin Gore stessa cosa: dalle tastiere alle chitarre, l’anima musicale del gruppo è lui, negli anni si è messo sempre di più a recitare la parte del cantautore, cantando un paio di pezzi ad ogni show, accompagnato al piano dal sempre solidissimo Peter Gordeno (una garanzia assieme al batterista Christian Eigner). Fletch vabbeh, è Fletch: volete pure che faccia qualcosa? In pratica, il loro è un concerto solido, variegato ed emozionante dove elettronica ed analogico si sposano benissimo e dove a seconda del mood prevalgono le chitarre o i synth ma sembra con grande equilibrio e gusto. Magari ultimamente si balla un po’ meno di prima, la setlist è zeppa di brani più lenti o scuri ma non c’è davvero niente di cui lamentarsi. Volete vedere qualcuno che suona dal vivo? Andate a sentire loro e in teoria potrebbe bastarvi per qualche anno.

5) Ecco, se mai dovessimo fare un’obiezione, diremmo che è stata sempre la solita roba. I Depeche Mode fanno uno show pazzesco ma, gira e rigira, è sempre il solito show. E non solo da questo tour. Ci sono i pezzi nuovi (quest’anno pochissimi, appunto) e poi c’è il greatest hits. Fine. Vuoi la rarità? Scordatela. Vuoi la chicca del secondo disco che conoscete in due e che non suonavano dal 1986? Scordatela, non siamo ad un concerto di Springsteen. Qui tutto è studiato a tavolino, qui si cerca di fare la felicità di chi conosce solo i classici (e non sono sicuramente la maggior parte di quelli che vanno), non di premiare il fan alla sua 750esima data. E ringraziate pure il cielo che ogni tanto qualcosa cambiano perché gruppi come gli Iron Maiden, per dire, sono ancora più fossilizzati. Nello specifico, la setlist di questa nuova leg è stata effettivamente un po’ svecchiata: è arrivata “It’s No Good” in seconda posizione, sono state riprese “Precious” e “A question Of Time”, è stata inserita “Useless”, che non si sentiva da un po’ e che è stata effettivamente una bella sorpresa. In più, Martin si è messo a cantare “Insight”, che ho riconosciuto dopo un minuto buono, giusto per dirvi quanta dimestichezza avessi con questo brano. Se pensiamo che qualche giorno prima a Norimberga aveva ripreso addirittura “I Want You Now”, possiamo dire che sì, qualcosina si è mosso. È ancora troppo poco, però, per quelli che non vanno più fuori di testa con “Personal Jesus” ed “Enjoy The Silence” (peraltro proposte con qualche piccola variazione negli arrangiamenti, quindi direi pure che va bene così).

6) Ok, va bene, vogliamo i pezzi rari, vorremmo la setlist diversa ogni sera. Però non è che i classici facciano schifo, eh! Per esempio, l’ondeggiare di mani guidato da Dave su “Never Let Me Down Again” è la cosa più bella che ci possa essere ad un concerto rock. E ve lo dice uno che non ha per nulla la fissa di queste cose.

7) Black Mirror è realtà, il mondo è finito, ha ragione Jack White. Scherzi a parte, il fenomeno dei cellulari ai concerti oramai è fuori controllo. Lo capisci non tanto quando vedi decine di persone utilizzarlo senza se e senza ma (uno ha filmato tutto il concerto con tanto di Selfie Stick e nessuno, dico nessuno, gli ha detto nulla. Ok, era grosso e minaccioso ma è anche vero che accanto a lui stavano quasi tutti facendo la stessa cosa) ma quando vedi Dave Gahan farsi tutta la passerella avanti e indietro, fermarsi a metà del parterre per dirigere il battimani del pubblico e accorgersi con orrore che nessuno di quelli più vicini fa quello che lui chiede perché sono tutti troppo impegnati a filmarlo col loro bel telefonino. Adesso ditemi che c’è salvezza da tutto questo perché io dopo sabato penso di avervi rinunciato completamente.

Se adesso dichiarassi che questo è stato il mio ultimo concerto dei Depeche Mode verrei sbeffeggiato per settimane. Poi, immancabilmente, al prossimo tour ci ricascherei e mi direbbero tutti che avevano ragione loro. Quindi facciamo che non dico nulla. Adesso come adesso non ho certo voglia di rivederli. Vedremo da qui a qualche anno. Di sicuro la prevedibilità, se pure va messa in conto ad un certo punto, non può non dare fastidio. Ma forse questo è il destino di tutti i grandi gruppi, giusto? Forse la domanda vera dovrebbe essere: cosa voglio davvero quando vado a vedere un nome così?