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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
13/06/2022
Ten Years After
Cricklewood Green
Cricklewood Green è il quarto album per i Ten Years After, diventati, nel giro di pochi mesi, tra il ’69 e il ’70, uno dei “biggest act” nel mondo. Otto brani al fulmicotone usciti dalla stralunata penna di Alvin Lee e interpretati dal quartetto inglese con un profluvio di lacrime, sudore e sangue, come se non ci fosse un domani. La magia del blues nelle pieghe di un rock massiccio, bagnato alle fonti della psichedelia.

In Sudamerica usano un termine, “comprometerse” che da noi ha un’accezione negativa, mentre in quel luogo uno che si compromette è una persona che ci mette del suo, nel senso che si mette nuovamente in gioco. Ebbene i Ten Years After, siamo verso la fine del 1969, sembrano spremuti, hanno dato tutto ciò che avevano in corpo con le fiammate psichedeliche di Stonedhenge, che sprizza tuoni e fulmini hard'n'heavy con echi di blues e intermittenti bagliori di jazz, si sono immersi nel rigenerante bagno rock di Ssssh e hanno partecipato al mito di Woodstock.

La loro energica esibizione durante il festival rimane negli annali e soprattutto "I’m Going Home" li rende eterni, presenti sia nel film sia nella colonna sonora che vengono realizzati, a immortalare un movimento di amore e musica indimenticabile. Cricklewood Green dimostra in maniera magnifica l’assoluta disponibilità della band a non dormire sugli allori, ma a ripartire con entusiasmo e aggiungere ancora qualcosa in più. La dimostrazione è il singolo "Love Like a Man", che viene concepito senza alcuna intenzione commerciale, e la lunghezza di sette minuti e mezzo ne è chiara testimone. Si vuole mantenere alti gli standard e aggiungere sempre quel mix di novità e freschezza: viene accettata la versione “radio edit”, senza il favoloso assolo di chitarra per il singolo a 45 giri, ma si obbliga la casa discografica a inserire nel lato B una performance live nella sua piena lunghezza, catturata all’epico Fillmore East e da ascoltare a 33 giri.

La voglia di immedesimarsi nei veri fan e di pensare cosa vorrebbero dalla loro band preferita si denota pure nell’assoluta avversione a partecipare a trasmissioni che non consentano esibizioni dal vivo, come Top of the Pops, regina della tristezza con l’uso del playback, e nella scelta di fermarsi a otto tracce nella scaletta del disco, tralasciando filler, scartando inoltre l’idea di inserire canzoni ritenute valide, ma non adatte a legarsi con il materiale proposto. E l’iniziale "Sugar the Road" si amalgama perfettamente alla susseguente "Working on the Road", sono due composizioni speculari perfette come opener, figlie dei bei tempi che furono per il rock con le sue contaminazioni hard. La prima, suggestiva beatificazione della party girl indipendente da qualsiasi tipo di legame, anche familiare e lavorativo, si dipana prepotentemente dopo alcuni effetti elettronici speciali preparati da Alvin Lee, con batteria e chitarra che si sfidano lungo tutto il percorso sonoro riecheggiante "Born to Be Wild" degli Steppenwolf; la seconda è furiosa e potente, libera, selvaggia e piace molto per quelle tastiere tonitruanti da cui nascerà il sound degli Uriah Heep. Si tratta di una dura riflessione sull’esistenza del musicista, per cui la vita di strada, l’essere eternamente on the road rimane certamente intrigante, ma alla lunga stancante e privo di senso se vissuto a sé stante.

 

“Questo è un album duro e puro, pieno di coincidenze e particolarità. Se ascoltate attentamente Working on the Road troverete un punto in cui qualcuno si appoggia alla ‘tape machine’ e il sistema multitraccia fa andare la canzone a velocità rallentata. Ce ne accorgemmo solo dopo il missaggio, ma in qualche modo noi e il sound engineer Andy Johns pensammo che non fosse necessario ri-registrare il pezzo. Così lo ascoltate con tale difetto e tutto rimane fedele all’originale”.

 

Queste parole di Ric Lee altro non sono che una magnifica istantanea del modo di lavorare del gruppo, maggiormente attento alle emozioni create da un’incisione che alla perfezione dei dettagli. Il batterista è protagonista della maratona sonora "50,000 Miles Beneath My Brain" – forse la canzone più vicina per background e attitudine al materiale dell’epico "Beggars Banquet" degli Stones – che raggiunge l’apoteosi grazie alle sue mitragliate percussive e profuma di psichedelico, lisergico e classico per merito di un clavicembalo spettrale il cui suono cosparge il motivo di una sensazione di estraniamento e fuga dalla realtà, palese anche nelle liriche, “Puoi amarmi con mille occhi, riesci a vedere dentro le mie ossa, puoi baciarmi con infinite labbra, riesci a sciogliere una pietra?”

Il Lato A dell’LP si chiude con la rapida escursione nel simil country-bluegrass "Year 3,000 Blues", ironica storiella fantascientifica – ritenuta sciocca all’epoca – su come potrebbe essere declinato il mondo nell’anno tremila e che, tragicamente, nella descrizione di una realtà distopica in cui dominano tecnologia e pensiero unico, ricorda il periodo da automi che stiamo vivendo in questo frangente. Il passar del tempo spesso fa rivalutare brani che parevano troppo sofisticati o fuori tema e "Me and My Baby" è proprio uno di questi. Uno splendore che evidenzia l’insospettata vena folk jazz del gruppo, una magnifica esplorazione dei tanti possibili orientamenti e ri-orientamenti di patrimoni sonori dalla matrice musicale apparentemente lontana, ma in questo caso talmente espansi e personalizzati da finire per risultare catalogabili nella sezione “meraviglie”! Il basso di Leo Lyons è straripante, la chitarra di Lee scandaglia nuovi territori e l’assolo al piano di Chick Churchill è delizioso quanto il suo costante martellamento d’organo.

 

Cricklewood Green, che deve il suo nome a un ragazzo della crew che abita a nord di Londra, appunto a Cricklewood, e coltiva nel giardino dei genitori delle piante dai semi dalle proprietà olistico-allucinatorie, non sarebbe lo stesso disco senza "Love Like a Man", del cui successo si è già discusso all’inizio. Ora preme sottolineare la genialità del riff, il testo filo-femminista, la corposità e robustezza del lungo bollente guitar solo, davvero stratosferico e, ancora una volta, la bravura di Lyons e Churchill nell’accompagnamento. Eterea, sospesa e timorosa di vedere un cosmo nato e funzionante senza un Dio che lo regoli è invece la leggiadra "Circles", ballatona dal retrogusto hippie in declinazione psichedelica alla Pink Floyd, che disegna nuovi canoni per raffigurare un blues moderno, tra lampi e tuoni creati dallo scontro di basso ed electric organ, con chitarre acustiche a rasserenare il cielo.

I ragazzi di Nottingham chiudono le danze con la vaporosa "As the Sun Still Burns Away", in cui i fraseggi magnetici tra la Gibson e l’organo creano un’atmosfera trasognata, il drumming odora di Keith Moon, mentre le parole scritte da Alvin profumano di tristezza per il tempo che passa, di come solo pochi nel mondo sappiano apprezzare la bellezza della nascita di un nuovo giorno e di quanti, invece, atrocemente incravattati, scordino che, prima o poi, il sole per loro non sorgerà più, Few say ‘Thank you for the day’, all the people in their ties forget to look up at the sky…”

 

Spesso i Ten Years After sono stati criticati per le non eccellenti doti vocali di Alvin Lee, per le composizioni monocordi e tutto sommato semplici, enfatizzando solo la velocità chitarristica del personaggio in questione e la vivacità degli altri musicisti coinvolti nel progetto. Analizzando bene la carriera del gruppo si può scoprire che il giudizio dei detrattori è troppo duro e ne sono testimonianza almeno una mezza dozzina di canzoni rimaste scolpite della storia del rock, unite ad alcune indimenticabili performance dal vivo. A volte il cuore, l’anima e il fuoco vissuto dentro e sputato fuori possono sopperire ad altre mancanze, e in fondo gran parte dei brani rimasti per sempre nell’immaginario collettivo nascono dalla “banalità” di alcuni accordi “messi in ordine” in modo giusto.

Cricklewood Green è uno dei vertici della carriera per gli album in studio del combo inglese, rimane da ricordare A Space in Time (1971), interessante per il cambio di stile, che abbandona in parte l’attitudine heavy e privilegia un suono acustico. Prima del “rompete le righe” del 1974 e tralasciando le successive reunion con o senza Alvin Lee, risulta imperdibile Recorded Live, catturato dal vivo nel Gennaio 1973, che dimostra la genuinità e la potenza incredibile di questi ragazzi quando salgono sul palco: nessuna sovraincisione, seppur stratagemma tipico di quell’epoca – e, volendo ben guardare, anche delle successive –, nessun artifizio. Solo Ten Years After al 100%, che volteggiano spediti nel loro orizzonte musicale, coniugando forma e contenuto, spettacolarizzazione e introspezione, aprendo anche scenari inaspettati, pronti a deragliare in altri generi, frutto della costante ricerca di nuovi stimoli.

 

“Ho sempre amato non legarmi ad un solo stile. Adoro ciò che hanno creato artisti geniali come Chet Atkins, Wes Montgomery, Chuck Berry, Django Reinhardt e Scotty Moore. Quest’ultimo mi ha influenzato moltissimo per il modo unico in cui ha suonato con Elvis. Gli devo davvero tanto”.

 

Verissimo, gli straordinari artisti citati da Alvin aleggiano nella musica del gruppo, che deve il suo appellativo proprio a Elvis, o almeno così si narra. Nel 1966 Lee e Lyons cambiano il nome da Blues Trip a Blues Yard fino al definitivo Ten Years After, a simboleggiare “i dieci anni dopo”, susseguenti al primo di successo di Presley, il 1956. Una scelta azzeccata, per una band che rimane nel cuore degli appassionati anche “tanti decenni dopo”.