Ispirato e ricco di evocazione, come ormai raramente ci capita di ascoltare, perlomeno in ciò che ci infligge il mainstream. Questo il sunto di Crossing Muddy Waters, pubblicato a inizio secolo: nel giro di un paio di canzoni vi immergerete nelle acque fangose del Sud degli States, nelle radici più pure del blues e della folk song.
Dopo aver sfornato più di una dozzina di album (tra i quali i notevoli Riding with the King, Bring the Family e Slow Turning) inequivocabilmente sintonizzati sulla frequenza della ballata rock, l’irrefrenabile John Hiatt torna alle origini, grazie a undici tracce magnetiche, completamente acustiche e di una bellezza abbacinante. Data la natura del lavoro, i vari brani non potevano venire incisi in una classica sala d’incisione nashvilliana, dovevano assolutamente far trasparire il gusto country del genuino, del fatto in casa e così, raccolto il gruppo usuale, Hiatt fa tappa a Linton, Tennessee, all’interno dello studio personale di Justin Niebank, il sound engineeer, e nel giro di una settimana, particolarmente stimolato, conclude il tutto.
«Quattro vorticosi giorni di registrazione... L'abbiamo fatto così in fretta che sono tornato a casa e ho pensato: “Oh, è una festa delle lacrime, ogni brano parla di perdita, di relazioni che si interrompono o che si sono improvvisamente concluse”. Ho detto a mia moglie: “Ehi, guarda, non c'è niente che non va, tesoro”. Quando ci siamo sposati le prendeva un po' troppo sul serio, ma ora lo sa bene. I songwriter sono un po' come Walter Mitty: viviamo questa vita di fantasia attraverso le nostre canzoni». (Estratto da articolo su latimes.com, Novembre 2000)
Occorre sottolineare la prolificità dell’autore, il quale, da compositore provetto come ci ha abituati, ha già nel cassetto, pronte per l’utilizzo, una quarantina di canzoni. Ciò gli permette una formulazione pressoché immediata della scaletta, senza ulteriori perdite di tempo. Ed effettivamente il metodo di lavoro di John consiste proprio nella creazione iniziale di una struttura acustica, che solo in seguito subisce i doverosi mutamenti per divenire un pezzo rock; il lavoro, quindi, risulta inaspettatamente semplificato.
Procediamo, ora, dopo le doverose premesse, all’analisi dell’opera. Chitarra e mandolino, sostenuti dalla ritmica sapiente del basso suonato dal fidato Davey Faragher, sono gli elementi chiave di ciascun brano. Le melodie sono dolci e quasi elementari nella loro formulazione, tuttavia contengono in sé il potenziale esplosivo della bluegrass music che le rende affascinanti e a loro modo potenti. La natura spoglia e leggera delle composizioni, inoltre, evidenzia in tutto il suo carisma la vocalità di Hiatt, energica e particolarmente ispirata nella sua intonazione un poco nasale.
L’opener “Lincoln Town” pare venir fuori direttamente dal repertorio di una jug band degli anni Trenta: la sei corde di John, supportata brillantemente dal magico mandolino di David Immergluck, che talvolta sembra quasi prendere il sopravvento, dà subito idea delle intenzioni del suo interprete, mentre la seguente title track è un country blues dalle mille emozioni, proprio come “What We Do Now” e “God’s Golden Eyes”, epiche ballate mozzafiato senza tempo né luogo. Il richiamo alla tradizione è ben chiaro e si relaziona soprattutto a quella zona del Piedmont ove l’attitudine folk si mesce senza pensarci troppo al blues e permette interscambi prolifici per entrambe le parti. Pure “Only the Strong Survives” e “Take It Down” viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda, anche se rimembrano forse maggiormente le vecchie rivisitazioni bianche del sud piuttosto che quelle dei bluesmen più autentici.
L’anima nera, afroamericana, si coglie invece in “Mr Stanley”, ove si rievoca, nello stile chitarristico, lo spirito di Lightnin’ Hopkins, e in “Take It Back”, un viaggio in un affascinante mondo lontano, ma così fortemente vicino al cuore, con una slide sporca e ruggente in sottofondo. Anche la voce viene qui adattata al contesto e acquista una sorta di tono lamentoso. Si accompagna così perfettamente al lento incedere dell’arpeggio e alle note un po’ più tirate. Ascoltare “Lift Up Every Stone”, “Gone” e la bellissima chiusura di “Before I Go” confermano la creatività di un rocker verace che ha sempre risentito del blues e ora esplode in tutta la sua intensità: l’espediente acustico e il feeling venutisi a instaurare per la familiarità del luogo di registrazione hanno fatto miracoli.
In conclusione, Crossing Muddy Waters è indubbiamente un lavoro ispiratissimo, originale e degno di essere ripescato in un mondo orientato all’omologazione di gusti e sonorità.
«Questo è il primo disco che sento interamente mio. Non mi era mai capitato. Visto che tutto è così in bilico, è un momento meraviglioso per essere libero artisticamente, senza vincoli commerciali». (Estratto da articolo su latimes.com, Novembre 2000)
Anche nei successivi album ci sono stati momenti speciali, dal cupo e introspettivo Master of Disaster (2005), carico di sfumature soul, alle ballate amene di Mystic Pinball, senza dimenticare il recente Leftover Feelings, dove è magistralmente accompagnato dalla Jerry Douglas Band, tuttavia Crossing Muddy Waters rimane una delle vette di Hiatt, songwriter e autore di successo che avrebbe meritato ancora miglior fortune.