Ventottenne, australiana di Sidney, una gavetta spesa prima tra studi classici e cover band, e poi a creare un proprio personale songbook, che in breve tempo ha prodotto una discreta attenzione mediatica in terra natia, Julia Jacklin è sicuramente una delle giovani leve più interessanti del momento.
Nonostante sia solo al secondo album in studio (il primo, Don't Let the Kids Win, è stato pubblicato a fine 2016), in patria, negli States e in Inghilterra, è finita sotto i riflettori della stampa specializzata, che non ha lesinato elogi anche per questa seconda prova, considerata all’unanimità un piccolo gioiello di eleganza e di stile.
Si sa: il sophomore è sempre il momento più difficile nella carriera di un giovane artista, soprattutto se la qualità dell’esordio ha creato alte aspettative. La Jacklin, però, riesce nell’intento di ripetersi con una naturalezza che ha dell’incredibile, di scavare dentro di sè, di mettere a nudo le proprie inquietudini, utilizzando un linguaggio eterogeneo, che va dalla ballata scarna al fragore delle chitarre, che sa essere diretto e sincero, e al contempo radicato profondamente in un inafferrabile pacatezza.
Body è un opener che vale un intero disco: ritmi dilatati alla Spain, una voce apparentemente distaccata eppure così carezzevole, umori malinconici che stanno in bilico sul confine che porta a Jason Molina, poche note di piano che accarezzano come un refolo di vento una storia di un amore che sta, che deve chiudersi (“Ho detto ti lascerò/ Non sono una brava donna quando sei in giro…”). Un brano che ha del miracoloso, di quelli che producono l’effetto calamita per tutte quelle che seguono.
In realtà, poi, ognuna di queste canzoni possiede un intreccio narrativo speciale, un punto di fuga che catalizza l’attenzione, immagini brillanti e ricchi dettagli sonori: la Jacklin si concede lo spazio per raccontare una storia per intero, anche se richiede un versetto o due in più, perché raccontarsi bene in fin dei conti è più importante che piacere a tutti.
Non è univoco il mood di Crushing, e il susseguirsi delle canzoni, mai prevedibile, è destabilizzante. Tanto compassato era il passo di Body, così sferzanti, allegri, giocosamente rumorosi sono alcuni degli episodi che seguono, a partire dal jingle jangle esuberante di Head Alone, affermazione della proprio indipendenza sessuale, al tiro dritto e grintoso di Pressure To Play, o alla sferragliante sfrontatezza di You Were Right (“Ho iniziato ad ascoltare la tua band preferita e ho smesso di ascoltarti”).
Ci sono, poi, per converso, anche momenti estremamente scarni e rarefatti, come le due ballate poste a metà disco, una per solo pianoforte (When The Family Files In) e una per solo chitarra (Convention), in cui Julia mette in evidenza il suo evocativo soprano, allenato da anni di studi classici. E se la conclusiva Comfort, dall’abito quasi francescano, è l’ennesima prova vocale di livello, l’avvincente Turn Me Down, sei minuti che hanno come musa ispiratrice la Courtney Barnett degli esordi, ribadisce il considerevole talento di una singer songwriter pronta a fare il grande salto, non solo nel cuore della critica. In Crushing, infatti, c’è tutto: canzoni, suono, una voce di rara bellezza, e tanta, tanta sincerità.