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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
08/09/2021
Curtis Mayfield
Curtis
Un artista completo, vero protagonista della black music. Raffinato compositore, produttore e multistrumentista, si caratterizza per il suo modo di cantare con un uso preponderante del falsetto e per aver introdotto nei suoi testi la coscienza politica e sociale afroamericana. “Curtis” è il suo straordinario debutto da solista, dopo i successi conseguiti negli anni sessanta con gli Impressions.

Senza di lui la musica black come la ascoltiamo al giorno d’oggi semplicemente NON esisterebbe”.

Estratto da Rolling Stone magazine, 1997.

 

Soul.Anima.

Che si parli di genere musicale, o, utilizzando la traduzione italiana, si discetti solo di anima, oppure, allargando un poco le vedute, di spiritualità, si fa comunque centro con Curtis Mayfield. Dai suoi esordi fino al rapido, grande successo con gli Impressions, gli argomenti, i sentimenti, le musiche e il cantato vengono dal profondo del cuore ed esortano a una nuova vita, basata sul rispetto e la consapevolezza di essere “black”, e su quanta potenza questa cosa possa avere.

It’s All Right, Keep On Pushing, People Get Ready e The Choice of Colors non sono solo alcuni titoli di canzoni celebri del gruppo, ma rappresentano la traiettoria sonora e compositiva dell'artista di Chicago, la cui evoluzione nel quinquennio ’64-69 è notevole e porterà alle brillanti innovazioni del debutto in proprio.

Il primo disco solista dell’autore americano, pubblicato nel 1970 e intitolato semplicemente Curtis, è infatti tutto fuorché semplice: pomposo, maestoso, brillante e cinematografico. Riesce ad affrontare temi scottanti come il razzismo e le ingiustizie in generale sempre con un pizzico di ironia e la capacità di sconvolgere il pensiero comune.

L’inizio, con la folgorante funky (Don’t Worry) If There’s a Hell Below We’re All Gonna Go, è piacevolmente devastante. Si parla d’inferno e i ritmi infatti sono indiavolati in un tappeto di percussioni interminabili, urla tribali, chitarre wah wah incendiarie, fuzz-bass e fiati incalzanti. Solo i violini, incessanti, sembra tentino di riappacificare l’atmosfera bollente cercando un ponte verso una calma, una tranquillità che, però, non arrivano. D’altronde il testo non lascia adito a dubbi e rappresenta un chiaro avvertimento sarcastico per ulteriori –possibili- future tensioni razziali, dopo tutti i progressi avvenuti negli anni sessanta.

 

“Parlare dei “Sixties” mi porta quasi sempre a commuovermi e a versare qualche lacrimuccia. Che cosa e quanto facemmo!  Che cosa e quanto facemmo TUTTI! Abbiamo cambiato il mondo.”

Mayfield evidenzia come le nuove problematiche in arrivo debbano essere affrontate collettivamente senza parole e promesse “vuote”. Qualunque individuo, dall’alto al basso della scala sociale, deve collaborare in armonia, altrimenti, senza questo cambiamento convinto delle parti in gioco, si finirà tutti all’inferno (se davvero esiste).

“…They say don't worry
But they don't know

There can be no show

And if there's a hell below
We're all gonna go…”

 

“ Dicono di non preoccuparsi, ma non sanno che non ci può essere spettacolo e se lì sotto mai ci fosse un inferno… ci andremo tutti”.

La tensione si placa nella malinconica The Other Side of Town, che comunque evoca nuovamente i continui soprusi subiti dagli emarginati, per poi trasformarsi in un canto d’amore celestiale in The Makings of You, inno alla gioia di vivere accanto alla persona amata. La canzone si apre con un brulicare di arpe, ha una melodia zuccherosa, ma mai banale, resa immortale dal celebre falsetto dell’artista afroamericano e potrebbe anche contenere un significato più trascendentale. Resta un’immagine idilliaca presto sgominata dalla imprevedibilità di We the People Who Are Darker Than Blue che mischia atmosfere psichedeliche a momenti reminiscenti colonne sonore alla Morricone, in tinta black.

La produzione di tutto il disco è impeccabile e lascia di stucco per la modernità degli arrangiamenti e orchestrazioni. Nulla viene lasciato al caso e il buon Curtis si circonda di “session men” eclettici fra cui si ritaglia uno spazio particolare il percussionista “Master” Henry Gibson, vero Dio delle “pelli”, padrone di ogni ritmo e in grado di stupire con le sue svisate irrefrenabili che vestono di un abito diverso, a seconda del bisogno musicale, ogni brano della raccolta. Non è da meno Philip Upchurch, che contribuisce a saturare di gospel e rhythm and blues l’impalcatura soul delle canzoni, coadiuvato brillantemente dal compagno di strumento Patrick Ferreri, chitarrista spiccatamente classico molto diverso da lui e complementare, più radicato nel jazz.

Mayfield rimane il profeta della speranza -a maggior ragione pensando ai successivi accadimenti e ai suoi ultimi anni di vita, in cui non si è mai arreso- e un inno in tal senso sono i nove trascinanti e turbolenti minuti di Move On Up. Un ritmo incalzante, da vero “rave party naturale”, con bonghi e percussioni a fracassare e infrangere qualsiasi legge musicale, fiati e orchestrazioni d’archi pronte a rileggere la storia del soul in accezione progressive, e liriche universali: chi nella vita non ha vissuto momenti difficili e necessitato di supporto per rinvigorirsi e sperare in tempi migliori?

“Take nothing less, than the supreme best
Do not obey rumors people say
'Cause you can pass the test
Just move on up, to a greater day
With just a little faith
If you put your mind to it you can surely do it.”

 

“Non prendere nient’altro che il meglio supremo, non ascoltare le dicerie della gente perché puoi superare il test, semplicemente vai avanti fino a un giorno che sarà più grande, basta una piccola speranza e se ti metti d’impegno puoi sicuramente farcela”.

“Sogni per un nuovo radioso domani”: potrebbe essere questo il sottotitolo ed è chiaro l’intento dell’autore, pronto a dar forza a chi lo ascolta. La magia delle sue note e parole è lo spunto per poter realizzare le proprie aspirazioni. Una canzone epica che non passerà inosservata musicalmente e pure politicamente. Rimangono da urlo, e un poco di nicchia, la cover al fulmicotone dei Jam di Paul Weller prima (1982) e successivamente quelle psichedeliche live dei My Morning Jacket, ma non può che stupire il fatto che il brano sia stato utilizzato pure da Joe Biden al termine dei suoi discorsi durante la campagna presidenziale 2020.

Il finale del disco ha invece un sapore agrodolce. Accanto alla tenerezza di Miss Black America, che tratta comunque il tema scottante dell’assenza, all’epoca, dell’universo femminile coloured ai concorsi di bellezza, c’è l’anarchica Wild and Free, inneggiante la libertà da ogni vincolo dato dalla società. Il discorso si fa più personale nell’ultima traccia, Give It Up, dove la ricerca di una nuova vita ricca di gratificazione spinge a ripudiare anche il legame sentimentale. In questo caso occorre comunque sottolineare la difficoltà della scelta, che, anche se espressa chiaramente nel testo, pare vacillare nei toni sdolcinati che incorniciano una melodia altrettanto stucchevole.

Sembra incredibile, ma Curtis Mayfield è riuscito in sole otto pennellate a dipingere il quadro dell’esistenza in cui convivono accanto ai più nobili sentimenti pure i più beceri, e spetta all’uomo, con la sua forza d’animo e convinzione, bilanciarli per trovare un equilibrio e avere quella serenità che può portare al progresso e alla pacifica convivenza. La sua capacità incredibile sta nell’aver abbinato sentieri sonori innovativi a liriche che hanno trovato nell’universalità la soggettività. Un percorso a ritroso che porta al centro dell’anima e permette di acquisire una pace interiore inattaccabile, anche di fronte alle più terribili disgrazie. Non può mancare, a chiusura, proprio la memoria di quanto accaduto all’artista a quarantott’anni appena compiuti, dopo una carriera costellata di successi fra cui è d’uopo ricordare la colonna sonora Superfly, del ’72, dove si cimenta anche come attore.

Siamo nel 1990, Curtis rimarrà paralizzato dal collo in giù per la caduta di un impianto di illuminazione presente sul palcoscenico a Flatbush, New York, dove stava per esibirsi. Riuscirà a resistere con una serenità stupefacente fino al ‘99 incidendo pure un capolavoro tre anni prima, quel New World Order che contiene Here But I’m Gone, un brano da brividi.  Si tratta di una splendida composizione molto autobiografica ideata da una mente sempre geniale che, pur con una fatica enorme e senza ovviamente poter imbracciare la sua amata chitarra con cui era solito comporre, riesce a cantare strofa su strofa sdraiato sulla schiena.

Non poteva che mollare se non proprio alla fine, dopo un repentino declino delle condizioni fisiche dovute ancora all’incidente e l’amputazione di una gamba, questo incredibile musicista re della speranza, in grado di trarre spunti positivi anche nell’atroce sofferenza. Proprio l’anno della morte verrà indotto per la seconda volta nella Rock and Roll of Fame, stavolta come “solo artist”, dopo la prima insieme agli amati Impressions.

Un uomo formidabile, ma anche straordinario per semplicità, umiltà e rispetto.

“Tutto ciò che ho imparato lo devo a mia nonna, la mia più grande influenza…Era una persona molto religiosa, mi ha insegnato a utilizzare il buonsenso per carpire il giusto e lo sbagliato nelle situazioni. La mia idea è di mettere sul piatto entrambi così che la gente possa decidere con la propria testa”.


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