Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
12/10/2020
Dark Tranquillity
Damage Done
“Damage Done” rappresenta il primo tassello di quello che, da lì in avanti, sarebbe divenuto il nuovo corso dei Dark Tranquillity: la matrice Death scandinava ben presente nell’ossatura dei pezzi, ma senza tuttavia rinunciare a quegli elementi elettronici e più propriamente “moderni”...

Chi, come il sottoscritto, ha più di quarant’anni ed è cresciuto ascoltando Metal, si ricorderà senza dubbio che nella seconda metà degli anni ’90, nell’ambito di quella scena che molti chiamavano “Gothic Death”, ci si iniziò a vergognare tremendamente di suonare troppo cattivi e brutali, e si iniziò a contaminare il proprio sound con sonorità ed influenze che il proprio pubblico, notoriamente colto ma allo stesso tempo particolarmente impermeabile al mondo esterno, fece davvero fatica a tollerare. Fu un mutamento che avvenne in parte per fisiologiche ragioni anagrafiche (quando smetti di essere ragazzino, le chitarre ribassate e le voci in Growl magari iniziano anche a starti strette), per un onesto e condivisibile desiderio di ricerca e in piccola parte, forse, anche per quella paraculaggine finalizzata ad accalappiare una fetta più vasta di ascoltatori e scalare le classifiche.

Durò decisamente poco e produsse più fallimenti che vittorie: a memoria, mi pare che solo gli Anathema e i Katatonia riuscirono davvero a conquistare un pubblico trasversale, divenendo band rispettate in ogni ambiente e, allo stesso tempo, senza perdere il rispetto dei fan della prima ora (che magari smisero di seguirli ma che non li accusarono mai di essersi venduti, visto che la qualità dei loro dischi era tale da sciogliere ogni dubbio). Di tutti gli altri, ci fu chi sparì nel nulla dopo aver fatto il passo più lungo della gamba (mi ricordo i Cancer di “Black Faith” e “Feel Sorry For The Fanatics” dei Morgoth, quest’ultimo che addirittura pareva sbeffeggiare i fan nel titolo e che fu punito con l’assordante silenzio che seguì la sua uscita) ma la maggior parte tornò all’ovile dopo una parentesi che, al di là degli esiti artistici, fu considerata talmente poco da rischiare di mettere anticipatamente la parola fine alla loro carriera: tra gli esempi più celebri, sicuramente la svolta simil Depeche Mode dei Paradise Lost, che dopo “One Second” e “Host” tornarono al più rassicurante Gothic Doom dei primi dischi, ed oggi sono ancora un gruppo sulla cresta dell’onda, con tantissime cose da dire, anche se bene o male sempre uguali a loro stessi. Idem come sopra per gli Amorphis, che esplorarono il loro lato più Folk all’indomani del capolavoro “Elegy” ma che con “Am Universum” e “Far From The Sun” si attirarono talmente tante critiche che decisero di tornare indietro. Anche qui stessa storia: hanno smesso di sorprendere ma il livello qualitativo toccato ad ogni loro nuovo disco è sempre altissimo.

I Dark Tranquillity, invece, hanno seguito un percorso molto diverso, per certi versi unico. Usciti ad inizio anni ’90 dal calderone del famigerato “Gothenburg Sound” inaugurato dagli At The Gates, la band di Anders Jivarp (che è anche l’unico sopravvissuto della Line Up originale) ha espresso il meglio con dischi come “The Gallery” e “The Mind’s I”, che assieme ai contemporanei “The Jester Race” e “Whoracle” dei connazionali In Flames costituirono l’apice del “Melodic Death” in salsa scandinava.

Di tentazioni commerciali ne ebbero poche: quando “ammorbidirono” in parte il loro sound, introducendo notevoli dosi di elettronica e di clean vocals, lo fecero più che altro perché il cantante Michael Stanne stava avendo diversi problemi di gola e continuare col growl in quel momento non sembrava possibile. Vi furono davvero pochi ammiccamenti e poca discontinuità in “Projector” e nel successivo “Haven”: erano sempre loro, in versione “Post Industriale”, se proprio vogliamo, e soprattutto non ricordo affatto che fossero dischi semplici.

Sta di fatto che, se pure ci fu un po’ di scontento (la matrice Death in effetti era del tutto scomparsa) l’idea di una frattura, di una svolta, non la si ebbe mai o per lo meno non la ebbi io allora.

“Damage Done”, che in questi giorni viene nuovamente ristampato dalla Century Media, la loro etichetta di sempre, rappresenta proprio il primo lavoro in studio dopo quel periodo di strano interludio. E costituisce dunque il modo migliore per rendersi conto di come, arrivati al 2002, con dieci anni di carriera alle spalle e con un singer finalmente rientrato in forma vocalmente (anche se lui stesso, nelle note del 2009 che accompagnano la ristampa, ammette che aveva ancora diversi problemi e che proprio per questo fece a meno dell’alcol per tutto il periodo di pre produzione e registrazione) non vi fosse semplicemente il desiderio di ritornare alle origini, bensì di proseguire per il proprio cammino senza troppo guardarsi indietro.

A ben vedere, “Damage Done” rappresenta il primo tassello di quello che, da lì in avanti, sarebbe divenuto il nuovo corso dei Dark Tranquillity: la matrice Death scandinava ben presente nell’ossatura dei pezzi, ma senza tuttavia rinunciare a quegli elementi elettronici e più propriamente “moderni” introdotti nei due dischi sopracitati. Traducendo poi il tutto in brani che non sempre beneficiavano di una struttura lineare, dove l’uso delle tastiere e degli effetti creava atmosfere suggestive e spesso stranianti ma dove melodia e brutalità si incrociavano sempre con grande naturalezza, soprattutto grazie al lavoro sopraffino di Niklas Sundin e Martin Henriksson alle chitarre e di uno Stanne decisamente in stato di grazia (per chi scrive il suo growl è tra i migliori in assoluto di tutta la scena estrema mondiale).

Non a caso qui dentro ci sono cose come “The Treason Wall”, “Monochromatic Stains” e “Final Resistance”, che sarebbero rapidamente divenuti classici del gruppo e tra le preferite del pubblico durante i concerti ma anche le tracce meno conosciute come “Hours Passed in Exile” o “Format C: For Cortex” possono essere annoverate tra le loro migliori di sempre.

Un disco importante, che avrebbe inaugurato un percorso senza troppi cambiamenti (il precedente “Atoma” si è un po’ discostato da questa formula ma non in maniera eccessiva) ma assolutamente privo di flessioni. E soprattutto, come ha giustamente sottolineato Stanne nelle già citate note, “Damage Done” è l’album che ha proiettato i Dark Tranquillity nel gotha del Metal mondiale: se “The Gallery” rimane infatti il loro capolavoro indiscusso e uno dei punti di riferimento assoluti del Gothenburg Sound e del Melodic Death europeo in generale, il disco del 2002 rappresenta invece, a livello di vendite e visibilità, la vera e propria rampa di lancio della band.

Una ristampa preziosa, che è di fatto identica in tutto e per tutto a quella del 2009 ma che, essendo fuori catalogo da diverso tempo, potrà ora esser comprata da chi se la fosse persa all’epoca. A corredo, come già nella prima edizione, quattro tracce bonus: tre inediti tratti dalle stesse session e presenti in origine in versioni speciali e compilation varie ed una roboante “The Treason Wall” dal concerto milanese del 31 ottobre 2008, da cui era stato tratto il DVD “Where Death Is Most Alive”.

Il sottoscritto quel concerto se lo ricorda molto bene, visto che era presente e ci tirò fuori anche un live report che probabilmente si trova ancora da qualche parte in rete. Essendo che anche quel titolo risulta fuori catalogo e che su EBay viene venduto a prezzi folli, sarebbe un’ottima idea ristampare anche questo, chissà che la Century Media non ci stia già pensando.

E non dimentichiamoci del nuovo album, che uscirà il 20 novembre: a giudicare da quanto abbiamo già ascoltato, ci sarà davvero di che essere contenti…


TAGS: DamageDone | DarkTranquillity | loudd | lucafranceschini