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REVIEWSLE RECENSIONI
06/09/2018
Nothing
Dance On The Blacktop
“Siamo intrappolati su una roccia gigante di asfalto che galleggia in un universo inutile. Piuttosto che combattere, meglio sorridere: balliamoci sopra!”.

Il titolo “Dance on the Blacktop”, secondo la spiegazione di Dominic Palermo, viene proprio da qui. È stato abbastanza per far scrivere alla critica americana che questo nuovo disco dei Nothing, il terzo della loro per il momento fortunatissima carriera, costituisca un momentaneo allontanamento dal mare di nera depressione e pessimismo che aveva caratterizzato i precedenti lavori, per abbracciare i lidi di una ritrovata serenità.

Altri fattori hanno contribuito ad avallare tale interpretazione; tra essi, il racconto di session di registrazione sorprendentemente rilassate, con amici che passavano a trovare la band, alcol che veniva consumato in maniera noncurante ed un’inusuale atmosfera di armonia tra i membri del gruppo, con un solo litigio importante tra Palermo e il suo sodale Brandon Setta, risolto comunque senza particolari drammi già la mattina successiva.

Una cosa è certa: questa svolta positiva sarebbe una bella conquista, perché Dominic Palermo è uno che di botte dalla vita ne ha prese davvero parecchie. A partire da una situazione famigliare non facile (il brano “Carpenter’s Song”, ultimo singolo estratto dal disco, racconta la figura del padre e nel presentarlo il cantante non ha certo dipinto un quadro idilliaco), il disagio e la violenza delle periferie di Philadelphia, i due anni di carcere che ha dovuto scontare per un’aggressione (lui ha sempre dichiarato che si trattava di legittima difesa) e che hanno indelebilmente segnato l’identità dei Nothing, fondati assieme a Setta, proprio dopo la recuperata libertà. Poi, nel maggio del 2015, mentre si trovava in tour per promuovere l’esordio “Guilty of Everything”, viene aggredito da sette uomini ad Oakland, che avevano cercato di rubargli il telefono. Ne esce malconcio, riportando un’encefalopatia traumatica cronica con cui sarà costretto a convivere per tutta la vita. Come se non bastasse, nell’ottobre dello stesso anno scoppia il famoso scandalo della Turing Pharmaceuticals, riguardante l’artificioso aumento del prezzo di alcuni farmaci per la cura dell’Aids. L’incriminazione di Martin Shkreli, CEO dell’azienda e tra i fondatori della Collect, l’etichetta discografica presso la quale i Nothing si erano da poco accasati, portò a diversi rallentamenti nell’uscita del secondo album “Tired of Tomorrow”, con la band che alla fine decise di ritornare alla sua vecchia label, la Relapse, storico nome nel campo del Metal estremo.

Tutto questo sembra per fortuna appartenere al passato. Quel disco si rivelò un successo sia artistico che commerciale, con un lungo tour da headliner ed una notevole crescita della propria fan base.

“Dance on the Blacktop” arriva a due anni di distanza e mostra tutte le intenzioni di far compiere ai Nothing un passo avanti, per verificare se possono ambire a qualcosa di più in termini di vendite e popolarità.

Formazione in parte rinnovata con l’ingresso del bassista Aaron Heard ma per il resto sempre solidamente attestata sull’asse Palermo-Setta, a cui si affianca l’impeccabile Kyle Kimball alla batteria. Registrato tra New York e Woodstock e prodotto da John Agnello (Sonic Youth, Dinosaur Jr e Kurt Vile, tra gli altri), il terzo capitolo della saga Nothing presenta in effetti un qualche timido cambiamento dal punto di vista sonoro.

In primo luogo, c’è una maggiore compattezza di fondo, con le chitarre che formano un muro se possibile ancor più spesso ed invalicabile rispetto al passato: è un disco dal ritmo sostenuto, dove gli sprazzi melodici e le melanconiche linee vocali che da sempre costituiscono un marchio di fabbrica del gruppo, sono messi al servizio di brani nel complesso più heavy che sul precedente lavoro, dove non mancavano episodi più crepuscolari e rilassati.

Ad eccezione di “The Carpenter’s Son”, una sorta di ballata contemplativa, dove una batteria da marcia funebre viene messa al servizio di una melodia che ricorda da vicino gli Slowdive di “Pygmalion” o la lenta e sulfurea “Plastic Migraine”, il resto dei brani vede i quattro pestare mica da ridere, contaminando la loro base Shoegaze con riflessi di Hardcore e Grunge, due amori che Palermo, da parte sua, non ha mai nascosto.

È così che se le iniziali “Zero Day” e “Blue Line Baby” (quest’ultima interessante anche dal punto di vista lirico, per come fonde insieme il personaggio di Ophelia ed un’amica di gioventù di Dominic, morta di overdose all’età di tredici anni), mettono in primo piano il contrasto tra il Wall of Sound creato dalle chitarre e i dolci sussurri delle linee vocali, “You Wind Me Up” ed “Hail on a Palace Pier” (per quest’ultima il cantante ha preso l’ispirazione da “Brighton Rock” di Graham Greene) sono invece più veloci e sfoggiano dei gran bei ritornelli, probabilmente tra le cose che dal vivo funzioneranno meglio.

Lo spettro degli anni ’90 lo si intravede in “Us/We/Are”, alternanza pieno/vuoto tra strofa e ritornello, una somiglianza fin troppo marcata con un singolo dei Radiohead datato 1993…

La chiusura di “(Hope) is Just Another World With a Hole in It” (un bello statement da parte di chi aveva ammesso di essere diventato un po’ più sereno ma facciamo finta di niente) pare un omaggio ai My Bloody Valentine e si congeda dall’ascoltatore in modo non proprio memorabile, nonostante la bellezza del break acustico nel mezzo.

Che dire? Per chi, come il sottoscritto, aveva amato alla follia “Tired of Tomorrow”, questo follow up risulta per certi versi inferiore alle aspettative. Il sound dei Nothing è sempre quello e chi preferisce quando sparano a mille troverà qui alcuni episodi davvero notevoli.

Per il resto, una certa ripetitività nel songwriting ha cominciato a fare capolino e quasi sempre manca quel guizzo, quella scintilla che aveva reso gigantesco il suo predecessore.

Non fraintendetemi, però: stiamo comunque parlando di un disco di livello più che buono, a tratti ottimo, un disco che, al netto di qualche sprazzo maggiore di solarità, ci conserva dei Nothing che non hanno abbandonato la loro personale cognizione del dolore.

Dopotutto, se è vero, come detto dallo stesso Dominic, che “l’arte dovrebbe metterti a disagio”, “Dance on the Blacktop” colpisce decisamente nel segno. A novembre torneranno in Italia: non perdeteli.