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REVIEWSLE RECENSIONI
25/11/2022
Parkway Drive
Darker Still
Una magniloquenza sonora da cui si ambisce di essere travolti, una precisione impeccabile e scenografica, un’eleganza al tempo stessa oscura, imponente e muscolare. Darker Still è una storia di abissi, riconquiste e riconferme, una su tutte quella della validità di uno dei migliori act metal in circolazione a livello mondiale: i Parkway Drive.

Voglio belle melodie che mi dicano cose terribili

(Tom Waits, citazione sul frigorifero della casa del frontman Winston McCall)

 

«Le lotte, le cadute, le cicatrici e le ossa rotte.

Sotto tutto ciò, le crepe iniziano a mostrarsi

Il dolore, l'odio, noi non stiamo meglio da soli

Poi una bomba a orologeria

Non lasciare che esploda.

L'impeccabilità è una finzione, l'imperfezione ci rende integri

Il peso che ti tiene giù, lascialo andare»

(“Ground Zero”)

 

Darker Still è la colonna sonora di una rinascita, di quelle che avvengono con sofferenza, fatica e dolore, dopo aver attraversato gli antri più bui dell’anima ed essendosi scontrati con i peggiori lati di noi stessi e degli altri. È la colonna sonora di una riconquista, di quelle che odorano quasi di sconfitta, ottenuta per un pelo dopo aver sfidato le sorti e strisciato nel fango, affrontato i propri demoni e averli visti crollare e combattere contro quelli degli altri. Darker Still è il suono di una riappropriazione: di sé stessi, delle proprie relazioni, emozioni e modalità di interagire con gli altri, oltre che del proprio lavoro e delle proprie passioni.

Nessuno esce intero da un processo di rinascita: qualcosa si perde, qualcosa si rovina per sempre e qualcosa si guadagna. Meno ego, meno arroganza, meno certezze spavalde, ma anche più consapevolezza, dialogo, ascolto, collaborazione e a suo modo leggerezza, di modo che ogni passione, azione e relazione possano vivere ed evolversi in libertà, ritrovandosi più solide perché fondate su certezze differenti e meno soggette a dinamiche tossiche.

 

Quando a vent’anni fondi una band metalcore, essendo cresciuto a pane, surf, locali punk hardcore e musica, inizi a realizzare album, avere sempre più successo e far diventare la propria passione un lavoro, spesso non ti accorgi nemmeno di quanto tutto stia diventando grande. I tour che da locali diventano nazionali e poi internazionali (e, in quanto australiani, intercontinentali), gli album che si susseguono a ritmi regolari ogni due o tre anni (tempo di scriverli, registrarli, fare lunghi tour e ricominciare), i tempi e le pressioni lavorative e familiari che iniziano ad aumentare. È un enorme gioco bellissimo, è un lavoro soddisfacente, appassionante ma sfiancante, ma come lo stai affrontando? Da solo o come gruppo? Gli altri cosa ne pensano di quello che state realizzando, che cosa provano? Ognuno è consapevole di qual è il contributo che l’altro apporta? Quando i tuoi compagni sono tesi o hanno dei problemi cosa fai: li ascolti, ci parli, o li bullizzi e porti lo stesso testosterone delle canzoni anche nelle dinamiche tra membri della band? Sono tutte domande che prima o poi si ripropongono con frequenza e intensità sempre maggiore, sottoforma di non detti, litigi e tensioni.

Quando ti ritrovi ad averne quaranta, di anni, dopo che non ti sei mai fermato, non hai mai riflettuto, sei arrivato a fare il tour della vita, con l’album della vita (Reverence, 2018), raggiungendo i più grandi e importanti palchi che potevi mai ambire a calcare come headliner (Wacken Open Air, uno dei più grandi festival metal al mondo) e quello che provi è sì enorme soddisfazione e felicità, ma anche stress a livelli di burnout ed estrema insofferenza verso i tuoi compagni di viaggio, tanto che vorresti solo mollare tutto, forse qualcosa non sta funzionando.

 

Questa era la situazione che i Parkway Drive si sono trovati ad affrontare negli ultimi due anni. Essere sull’orlo del più grande successo mai raggiunto… e al tempo stesso sull’orlo del più profondo baratro. Aggiungiamo pure la pandemia, l’isolamento, i problemi familiari, gli amici che si sono suicidati e tu non sapevi nemmeno che stavano male, l’abitudine a reagire più con la depressione o la rabbia che con la comunicazione e ogni membro della band aveva un motivo diverso per non tollerare il suo vicino. Come fare? La buona idea è arrivata dal chitarrista ritmico e manager interno della band, Luke Kilpatrick, che ha suggerito a tutti di andare da un consulente. La notte più oscura stava arrivando, gli incubi si protraevano da troppo, ed era giunto il momento di svegliarsi.

La terapia di gruppo ha salvato la band, che è riuscita a dotarsi di nuovi strumenti di dialogo e comprensione reciproca, più maturi e consoni alla loro età e situazione. Parlandosi, aprendosi e superando vicendevolmente le proprie vulnerabilità si sono ritrovati più simili, vicini, fragili e forti di quanto non credessero, riuscendo a trovare la voglia e le forze di continuare a fare musica insieme, tirandosi su a vicenda e non lottando per affossarsi.

 

Darker Still è quindi il risultato di questo processo, a livello sia lirico che sonoro. Perché se date in mano degli strumenti e una penna a un gruppo di testosteronici surfisti quarantenni, tra loro magari si bullizzano, ma attraverso musica e testi non possono che riversare tutto il loro talento e i loro pensieri: tutto ciò che non si sono detti prima della terapia, se lo sono inconsciamente e inconsapevolmente suonati, scritti e confessati nelle canzoni che compongono l’album. Da un lato un poetico e curatissimo racconto in versi attraverso oscurità e distruzione per riscoprire il proprio io e la propria posizione nel mondo, fatto di dolore, insonnia, fragilità, riflessione e resilienza grazie alla non scontata penna di Winston McCall, e dall’altro un tripudio di chitarre svettanti, assoli di mirabilissima fattura e precisione grazie al genio di Jeff Ling, riff granitici ad opera di Luke Kilpatrick e atmosfere livide e plumbee, veicolate da una potenza di suono maestosa, imponente e violenta come una tempesta.

 

Darker Still è una notte ancora oscura che però per la prima volta apre ad un mondo ancora inesplorato dai cinque di Byron Bay: un album che si lascia alle spalle la furia metalcore per abbassare il voltaggio, suonare ad un numero di giri molto più basso di quanto mai sperimentato sinora, ma solo per aumentare esponenzialmente il groove, su cui non solo la voce, ma anche e soprattutto le chitarre volano e ricamano abbondantemente ed egregiamente. I re del metalcore hanno (ri)scoperto il metal, sfumando e giocando con la loro proposta più canonica solamente per poter creare un impatto emotivo e sonoro ancora più devastante. Un risultato che porta alla mente più di una volta (incredibilmente) i migliori Iron Maiden (vedi la title track), ma con alle spalle le problematiche del Black Album dei Metallica. L’aggressività però non manca affatto, arrivando in alcune tracce a toccare persino un’abrasività death metal (vedi “Soul Bleach”), affiancandosi però alla possibilità di sperimentarsi su uno spettro molto più ampio e variegato, con una perizia e precisione di maniacalità quasi progressive, dimostrando che possono rimanere maestosamente onnipotenti sia nei brani più muscolari, sia in tracce solo apparentemente più lievi, sia in canzoni che quasi strizzano l’occhio ai While She Sleeps (“Glitch”).

 

I Parkway Drive hanno riconquistato se stessi realizzando al tempo stesso un album diverso, capace di essere in un colpo solo di rottura, evoluzione e conferma. Le strutture e le dinamiche che sempre più sono create per emergere al loro meglio nelle arene sono all’ordine del giorno e la resa è niente meno che eccezionale. Impeccabile, magniloquente e ineluttabile su disco, potente, coinvolgente e scenografica dal vivo, come può testimoniare chiunque abbia avuto modo di vederli nel loro recente tour europeo. Una band che a distanza di quattro anni dall’incredibile Reverence non cede di un centimetro lo scettro e si riconferma come uno dei più imponenti e validi act metal a livello mondiale.