Mi affascinano molto le matrioske. O meglio, il loro concetto, l’idea che una cosa possa sempre contenerne al suo un’altra, più o meno simile. E anche l’idea che nulla sia a compartimenti stagni.
Mi piacciono le matrioske, dicevo, ed essendo così, sono fisiologicamente portato ad immaginare possibili collegamenti, nessi fra le cose, giustificandoli solo in un secondo momento.
“È colpa dei pensieri associativi”, cantava Battiato.
Battiato… Estate ’82.
Da qui in poi, questa diventa la storia di due rilasci lenti che si trasformano in esplosioni incontrollabili.
Uno è piccolo piccolo, e ve lo racconto io: Franco Battiato da Milo, provincia di Catania. Dopo anni di ricerca e sperimentazione, fra Stockhausen e gli esperimenti sui “grappoli di note” di L’Egitto prima delle sabbie, un quarantenne Battiato decide scientificamente di avere successo.
Comincia ad aprire al pop, esce L’era del cinghiale bianco nel 1979: comincia ad andare meglio, ma le vendite non sono ancora quelle sperate. Esce “Patriots”, nel 1980, ed è un altro passettino.
Nel settembre del 1981 esce La voce del padrone. E all’inizio sembra la stessa storia.
Poi, fra il maggio e l’ottobre del 1982 La voce del padrone diventa la più alta manifestazione di musica pop mai venuta fuori dall’Italia, rimanendo primo in classifica per diciotto settimane non consecutive. Ditemi voi se non è un rilascio lento.
Il secondo rilascio lento ce lo ha raccontato qualche sera fa a Palermo un monumentale Davide Enia. È quello di un signore di Prato, con un nome comune e un cognome ancora più comune, che fra il 1980 e il 1981, mentre Battiato si affacciava timidamente al successo, non aveva potuto fare il suo lavoro, il calciatore, perché ‘sta storia che il sistema è marcio era già palese quarant’anni fa.
“Dintra una maglia azzurra, nummero 20 ‘nna schiena, compare un giocatore magro magro magro che si chiama Paolo Rossi”. Italia-Brasile 3-2. È il mantra della generazione calcistica successiva a quella di Italia- Germania 4-3.
Enia racconta quell’impareggiabile momento di gioia collettiva che invase lo stivale “da Palermo ad Aosta”, è il caso di dirlo, mischiando insieme lessico famigliare ed epica classica.
Novello aedo, Davide ci porta in quello zeitgeist, dentro un momento storico in cui, in assenza di guerre, è quella cosa tonda che rotola su un campo rettangolare a fare la storia e unire le persone.
Tratteggia, col dovuto corollario di formule, frasi ricorrenti e patronimici (“Ciccio Graziani detto “il generoso Ciccio Graziani”” su tutti) una cavalcata odisseica, in cui gli avversari non sono lestrigoni o lotofagi, ma i “marziani” del “Brasili”.
È una danza in due tempi, è proprio il caso di dirlo, quella di Enia, in equilibrio perfetto fra momenti di sonore risate e momenti più densi, in cui alle convulsioni ansiogene di primo e secondo tempo (sgranate dalle incessanti Nazionali senza filtro dell’amico di famiglia Bruno Curcuru) si contrappone lo strappo intenso di un intervallo in cui trovano spazio i fantasmi.
Vincenzo Filippone, altro amico di famiglia, racconta al piccolo Davidù di Nicolaj Trusevich e della sua Start Kiev falcidiata dai nazisti durante l’occupazione di Kiev del 1942.
Poi Enia opera una splendida modifica al testo, rendendolo, se possibile, ancora più poetico. E allora ecco che, nei 45° di Palermo, sul balcone di casa Enia, il piccolo Davide vede il fantasma dello stesso Paolo Rossi. E poi quello di Scirea. E poi quello di Socrates. E quello di Valdir Peres. E poi anche quelli di suo zio Beppe e di Bruno Curcuru.
E tutto diventa concentrico: la vita racconta la morte e la morte ti spiega la vita. Poi riprende la partita, e con lei il racconto incessante di Davide.
È epica calcistica come in Italia nessuno ne ha mai fatto: Enia riesce a mettere insieme sacro e profano del pallone come solo Eduardo Galeano o Osvaldo Soriano hanno saputo fare.
Epica che arriva al suo punto più alto col racconto dei “golle” alla maniera dei cuntisti e dei loro salti sillabici, in un ponte ideale fra l’Antica Grecia e la Chanson de Roland.
Ad accompagnare Davide in questo racconto, la splendida cornice musicale costruita dalla batteria di Fabio Finocchio e dalla chitarra di Giulio Barocchieri.
A conclusione di tutto, uno dei momenti politici più belli che mi sia capitato di vedere da quando frequento teatri e palchi: un bis servito con una inaspettata e viscerale “Song2” dei Blur urlata e ballata da tutti a mo’ di liberazione dei corpi.
Non so se sia la famosa catarsi di cui spesso si parla in relazione al teatro, ma sicuramente è stato divertente, chè il teatro prima di tutto è quello: divertimento.
Adesso, però, è arrivato il momento di giustificare, come dicevo sopra. E penso basti sapere che Franco Battiato fu, a detta di tutti gli Azzurri, la colonna sonora del loro Mundiàl.
Perché la vità è così, concentrica.
E ogni tanto diventa un pallone da tirare sotto l’incrocio. Di puntazza arraggiata.
P.S. Forza Palermo.
Photo credit: Tony Gentile