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REVIEWSLE RECENSIONI
14/10/2019
DIIV
Deceiver
“Deceiver” è un disco di una bellezza scomoda, non cerca scorciatoie e non scivola nell’autocompiacimento.

Ho visto DIIV (si legge “Dive”) in entrambi i tour dei rispettivi primi album, avendo poi l’impressione di una distanza che per quanto affascinante era molto presente, lasciandomi con una sensazione di distacco unita a meraviglia. Ascoltando questo disco, ho come la percezione di un avvicinamento.

Come se certi confini siano meno forti.

Dico questo senza voler sminuire i lavori precedenti della band di New York, che rimangono dopo anni, ottimi e longevi.

Dopo aver militato nelle fila di Soft Black e Beach Fossils, Zachary Cole Smith ha dato vita al suo progetto solista pubblicando “Oshin” nel 2012, un esordio di grande impatto su pubblico e critica.

Una significativa dipendenza da eroina ed episodi ad essa legati lo portano ad una riabilitazione che passa anche attraverso la pubblicazione di un secondo bellissimo album “Is The Is Are”.

Al tempo, Smith lo definì’ “una luce fuori dal tunnel”.

È uscito venerdì 4 ottobre questo “Deceiver”, che già dal titolo (Ingannatrice/Ingannatore) si presenta come un album pieno di significati a partire forse dall’ammissione di una considerazione allora prematura, ma anche su ciò che è stato, il racconto di un passato recente, di una consapevolezza.

Di una emancipazione.

Così, se il suo predecessore era arioso e si muoveva tra spazi ampi, questo disco è fatto di alcuni riff molto decisi e in certi momenti si chiude stretto, si fa compatto per poi ritrovarsi in melodie e arrangiamenti che ricordano certi esordi di Smashing Pumpkins e Slowdive.

L’apertura di “Horsehead” dice molto in questo senso, tra riverberi e distorsioni, ma attenzione, senza suonare derivativo.

Gli arpeggi di “Like Before You Were Born” sono il preludio ad un avvolgente vortice shoegaze.

“Skin Game” è uno dei brani centrali di questo lavoro, anche per quello che raccontano le sue liriche, attraverso il segno di una manifesta maturità compositiva.

“I can see you’ve had some struggles lately / Hey man, I’ve had mine too” è uno spaccato tanto semplice all’apparenza, quanto intimo e forte alla luce di un percorso in cui affrontare realtà e immaginazione diventa necessità, tra immagini di un passato non troppo lontano e simbolismi che segnano tappe e ripartenze.

“Between Tides” ha la forza di mostrare la fragilità di Smith quando canta “I’m just waiting for the storm to die” in una nenia che si dondola a voler consolare.

La sequenza centrale del disco composta da “Taker” e “For The Guilty” ha un filo rosso che le lega a “Loveless”.

Sicuramente il produttore Sonny Diperri che era stato ingegnere del suono del capolavoro di My Bloody Valentine, ha un ruolo fondamentale nell’assecondare e incanalare in questa direzione suggestioni shoegaze che erano comunque presenti e importanti anche nei dischi precedenti di Diiv.

Subito dopo con “The Spark” abbiamo l’unico momento davvero riconducibile all’esordio, con il ritorno a certi echi Surf e jingle jangling.

Si scende come con un tuffo in slow motion in acque profonde, dove ci accompagna “Lorelei” tra chitarre epiche e cadenze marziali.

“Blankenship”, singolo che aveva preceduto la release di questo terzo album, ha la capacità di sintetizzare una grande sensibilità pop e le caratteristiche dominanti di questo album, in termini di atmosfere e significati.

Nella conclusiva “Acheron” tornano i fantasmi di certi Smashing Pumpkins, ma sono una presenza quasi fisiologica e non tolgono nulla.

Otto minuti in cui abbiamo la conferma dell’identità di una band che con questo album si muove tra debolezze e muscolosità, dove le prime sono esposte ed esorcizzate e le altre sono le cicatrici chiuse che strutturano e sostengono ricordando cosa è stato e chi si è.

“Deceiver” è un disco di una bellezza scomoda, non cerca scorciatoie e non scivola nell’autocompiacimento.

Sono cose che fanno la differenza tra album che passano e quelli che restano.


TAGS: alternative | CapturedTracks | Deceiver | DIIV | GiovanniPapalato | indie | loudd | recensione