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REVIEWSLE RECENSIONI
27/09/2017
Ariel Pink
Dedicated To Bobby Jameson
Dopo undici album devo ancora riuscire a capire se la musica di Ariel Pink sia soltanto un esercizio di stile fine a se stesso o, più probabilmente, sia fatta per chi di quella gloriosa stagione del secolo scorso conosca poco o niente.

Che bello essere senza cervello, vagare di stazione radio in stazione radio ascoltando musica cretina 24 ore al giorno. Guardo una ragazza scosciata in minigonna seduta in tranvia mentre un pischello con la felpa rossa e l'aquila albanese stampata sul petto, mi vuol cedere il posto di seduta che sdegnosamente rifiuto. In cuffia invece mi arrovello con il nuovo lavoro di Ariel Pink "Dedicated to Bobby Jameson", personaggio sconosciuto ai più che ebbe un momento di effimera gloria negli anni 60, caduto in repentina disgrazia anche grazie al suo manager. Questi, ancor prima che il suo protetto pubblicasse un disco, comprò paginate di carta su riviste patinate per pubblicizzarlo, facendolo passare come la prossima futura stella dello showbiz. Inutile dire che il buon Bobby finì ben presto in una spirale fatta di alcolici da discount e depressioni assortite. Scomparso da tutto e tutti e da tutti dato per morto riapparirà in rete nel 2007 curando un blog personale dove racconterà le sue vicissitudini. Questo fino al 2015, anno, ahinoi, della sua morte certa e fisica. 

Ariel Pink e il suo squinternato e a volte geniale pop ipnagogico lo ricorda con quattordici brani come se tra loro due ci fosse una certa affinità se non musicale perlomeno come mood. Il problema però nasce adesso; la presenza nella mia scatola cranica di una presunta materia cerebrale pensante mi costringe a non godermi appieno delle canzoni di mister Ariel, ma bensì nel cercare di scoprire le varie associazioni di sonorità tra brano e brano, manco fossi un sommelier. E quindi vai con il profumo di new wave e di electro pop, ma con finale all'orecchio di note neo-romantiche. Il sapore poi ti aggredisce con reminiscenze zappiane dal retrogusto psichedelico americano anni 60, con un'esplosione all'udito di afrori glam e finanche di ballatone pop comunque corrotte dalle scombiccherature areliane.  Insomma, molta ciccia sulla brace, o verdure nel frullatore se siete vegani, al punto che dopo undici album devo ancora riuscire a capire se la musica di Ariel Pink sia soltanto un esercizio di stile fine a se stesso o, più probabilmente, sia fatta per chi di quella gloriosa stagione del secolo scorso conosca poco o niente, condizione ahimè necessaria per godersi i lavori del nostro senza le elucubrazioni di un povero cinquantacinquenne.