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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
05/02/2018
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La Germania mi piace, da sempre. Mi piace il territorio, la birra, i meritatissimi cliché a lei associati, le città, la forza, la lingua ed il fatto che lo zio Ally, in qualunque nazione si vada in vacanza, per capire l’indice di figa presente, chieda sempre: “Tedesche?”.
di Linda G.

La Germania mi piace, da sempre. Mi piace il territorio, la birra, i meritatissimi cliché a lei associati, le città, la forza, la lingua ed il fatto che lo zio Ally, in qualunque nazione si vada in vacanza, per capire l’indice di figa presente, chieda sempre: “Tedesche?”.

L’abbondante produzione di serie tv mi dà ragione: la Germania è una donna perennemente gravida di storie. Negli ultimi sei mesi mi sono imbattuta in tre nuove serie tv, una più tedesca dell’altra: Babylon Berlin, Deutschland 83, Dark.

Con Babylon Berlin si assapora la decadenza del periodo dopo la prima guerra mondiale, in piena Repubblica di Weimar. La Germania sconfitta e umiliata dal trattato di Versailles. Una nazione allo stremo, allo sbando  su cui potrà facilmente attecchire il delirio nazionalsocialista, trovando nei suoi abitanti il terreno prediletto dal totalitarismo: la disperazione. Una Berlino viziosa, perversa, già crocevia di scambi tra oriente e occidente. Fulcro di movimenti artistici e politici in continua evoluzione.

In Deutschland 83 quella divisa in due.

Da bambina avevo un gioco di carte di cui nessuno conosceva le regole, forse era una sorta di Memory dell’Europa. E la Germania aveva due carte. Addirittura si erano sforzati nel disegnare due vestiti tipici differenti, per quella dell’est e per quella dell’ovest. E no, quella dell’est non raffigurava una donna munita di gonnellone e barba (cosa che avrebbe potuto avere una sua logica).

Io tifavo Est. Sempre. Alle Olimpiadi, ai Mondiali al campionato di briscola chiamata. Perché, sotto sotto, lo sospettavo che non fosse tarallucci e vino per i ventenni di Lipsia. Erano gli anni ’80, noi ci vestivamo da paninari, gli spagnoli non erano ancora riusciti ad abbandonare il fustagno ed il pantalone a zampa (l’eredità di Franco ci mise un po’ ad esser smaltita in fatto di costume), gli olandesi si vestivano come delle gattare (la globalizzazione ha salvato intere generazioni di biondine dagli outfit peggiori della storia) i tedeschi, calzino bianco a parte, erano divisi in due.

Quelli dell’ovest venivano a frotte in estate tanto in Riviera quanto sui monti. Quelli dell’est boh, nessuno lo sapeva, o forse sì ma si faceva tutti bellamente finta di nulla. La notte dell’abbattimento del muro la ricordo per il freddo sotto i piedi. Una delle rare volte in cui mi sono potuta alzare dal letto e stare davanti alla tv dopo le 9 di sera. Non avevo le calze e me ne stavo con gli occhioni sgranati e umidi a vedere le picconate che quei tedeschi, gli uni vestiti da Gavroche, gli altri vestiti da metallari, davano alla storia. Deutschland 83 dipinge magnificamente la realtà di un ragazzino che, suo malgrado, si trova ad essere spia, a rischiare la vita, a scoprire che la sua sino ad allora era stata una menzogna.

Dark racconta della stessa Germania, tre e trentatré anni dopo. Ambientata nell’ovest, in una cittadina immaginaria, tetra, dark insomma, racchiude e dà forma a tutte le sensazioni filo-crucche della mia infanzia. La colonna sonora è da urlo: Nena, Dead Or Alive, Apparat e altri mostri sacri del Pop. La sensazione di essere sempre sul filo del baratro. Una tristezza di fondo difficilmente spiegabile; quel nodo appena sotto lo stomaco, latente e onnipresente anche nei giorni lieti. Baudelaire lo chiamava lo Spleen, le signore anziane della pianura padana il Vas Vas. Ecco, i tedeschi di Dark, che sia Spleen o Vas Vas, lo sentono.

Il fascino che questo paese esercita su di me è compreso tra due valori: il numero di tinte ai capelli che la povera Christiane F. si fa prima di andare al Pulp a ballare ed il taglio di capelli più fico degli anni ’90, indossato con strafottente gnoccaggine da Heike Makatsh.

Nei famigerati anni della mia adolescenza, nella valle di casa GG, si ricevevano solo i segnali di Raiuno, Raidue, Canale 5 e Italia uno. Così, mentre gli altri guardavano i VJ di MTV, io mi godevo (senza capire una sola parola) programmi di musica trasmessi da Berlino: VIVA e VH1.

Heike, la VJ, era la mia preferita perché era così figa che riusciva a rendere sensuale anche la lingua tedesca. Le ragazzine volevano i capelli di Kelly di Beverly Hills, io quelli di Heike. Solo che lei di capelli ne aveva un centinaio, io la popolazione della Cina prima della politica del figlio unico. Grazie a lei ho capito come si sente un fungo.

Mentre i miei coetanei si corrompevano le orecchie con la Pausini, Vasco, un po’ di glam rock ed amavano Enrico Silvestrin e le sue treccine, io venivo finalmente investita dall’onda d’urto del metal dal capello cotonato, il chiodo dal peso specifico di un bilico e le voci che, a confronto, il coro delle voci bianche è formato  da baritoni barbuti.

I tedeschi ascoltavano musica fantastica, da schiaffoni sulle gengive. Da loro arrivava tutto, dal pop più sfacciato al metal al rock bavarese, persino il rap, che qui non si filava ancora nessuno.

La mia amica Heike conduceva una trasmissione dal titolo dinamico e moderno, Interaktiv, in cui giovani tedeschi telefonavano e sfogavano tutta la loro adolescenza dedicandosi molto spesso i Bon Jovi, alle volte i vecchi leoni del rock “Die Toten Hosen”, altre  i  Blind Guardian e magari, nelmezzo, i Boyz II Men. 

È questo che amo della Germania, che non è facilmente definibile. Nell’ambito musicale la patria di Hesse supera da sempre ogni barriera. La Germania è la patria del Waken Open Air (in cui la birra arriva direttamente dal sottosuolo) e delle osterie di Gunzburg, della moderna e monumentale Berlino e dei vecchi che cantano in coro le canzoni Heino. È la patria del rigore di facciata ma dei vizi ben nascosti. Ed è da questo suo cortocircuito continuo che l’arte si alimenta. Che sia un romanzo di Goethe, un racconto dei fratelli Grimm, un quadro di Richter o un acuto di Michael Kiske, la Germania è dannatamente rock e non perché lo dice Celentano, ma perché se è vero che rock= figa allora figa= tedesche. Ed io, dello zio Ally, mi fido.