“Ho preso una bottiglia per stapparla sul divano/ho preso una bottiglia per spaccartela sul naso”. Basterebbero questi primi due versi dell’opener “Sangue di stivali” per capire che la sostanza c’è. Certo, l’influenza di “Bigmouth Strikes Again” è palese, confermata dal fatto che lui stesso ha nominato gli Smiths tra i suoi ascolti giovanili. Eppure c’è un’urgenza autentica, in questa crudezza buttata lì senza riguardi, all’interno di un brano che ha l’andamento melodico e la costruzione poetica di un canto popolare, ma un vestito fatto di basso batteria e chitarre distorte, tra Indie Rock e Punk; un contrasto che enfatizza ancor di più la vena spontaneista e a tratti perfino goliardica di questo lavoro.
Devo parlarne con mio padre, titolo a suo modo geniale, che da solo contiene tutto un mondo ed una visione della vita, è l’EP d’esordio di Luca Casentini, classe 1997, che si è scelto un monicker altrettanto geniale, vagamente dadaista, che confessa di avere “rubato” ad una band Punk di Aprilia, chiamata Gozzilla & le tre bambine coi baffi (non credo siano ancora in attività, l’ultimo disco è di dieci anni fa).
Una passione per la musica ereditata dal padre, una lista di ascolti piuttosto classici tra Indie e Classic Rock, poi il richiamo della scrittura, avvertito subito dopo l’uscita del debut album de I Cani (che sia stato a suo modo un lavoro influente non lo scopriamo certo oggi), un approccio qui da noi alquanto anacronistico, da band e sala prove.
Queste prime sei canzoni (in bilico tra punk e cantautorato, recita la bio) registrate e prodotte dallo stesso Luca in compagnia di Axel Ferrari e suonate da un quartetto che comprende oltre a Casentini (voce e chitarra) anche Leonardo Passari (chitarra), Andrea Pochesce (basso) e Simone Costantini (batteria) sono piuttosto scontate nell’approccio ritmico e melodico ma, forse anche per questo, suonano fresche e a tratti ingenue, come dovrebbe essere l’opera prima di un artista che, seppure non più giovanissimo, ha tutta la spensieratezza e la voglia di spaccare il mondo.
È anche interessante notare una certa varietà nella scrittura, che alterna episodi più diretti e veloci (“A te”, con un ripetuto vaffanculo buttato in faccia all’interlocutrice, in un brano che presenta anche una certa componente Urban, sullo stile dei primi Psicologi o di Centomilacarie) ad altri più melodici ma sempre molto pieni a livello sonoro (“Post-irrisione”, cronaca amara di un amore finito).
Nella loro semplicità un po’ cinica anche i testi sono ben scritti, mettendo in mostra incertezze e fragilità che a tratti si tramutano però in scampoli di ricerca esistenziale: “Gesù Cristo”, che è anche quella più interessante musicalmente, è una ballata sghemba e straniante molto debitrice ai Verdena, e affronta il tema dell’appiattimento esistenziale della modernità con versi niente affatto scontati nell’accostarsi al sacro (“E nella scatola nera che troverai quando non ci sarò/t’accorgerai dei miei incubi se vuoi/oggi parla la tv/tornerai a parlare te?”).
Altrove, il disagio si fa violenza ai limiti del Pulp, come nel ritratto famigliare di “Cocaina”, autofiction non si capisce se ironica o drammatica, ma senza dubbio potente, con una melodia killer ed una costruzione che alterna pieni e vuoti come nel più classico brano dei Pixies (“Mio padre non lavora più/vuole uccidersi a testa in giù/mia madre stenta a vivere/mio fratello si fa/cocaina”).
Insomma, non si grida al miracolo ma i motivi di cui rallegrarsi non mancano. Lo attendiamo sulla lunga distanza dell’album, sperando nel frattempo di riuscire a vederlo dal vivo.