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REVIEWSLE RECENSIONI
23/10/2017
Pale Honey
Devotion
Dopo due anni dal loro esordio intitolato semplicemente Pale Honey (2015), il duo svedese di stanza a Goteborg torna nei negozi con il sophomore Devotion.

Dopo due anni dal loro esordio intitolato semplicemente Pale Honey (2015), il duo svedese di stanza a Goteborg torna nei negozi con il sophomore Devotion. Un disco senz’altro più coeso e omogeneo del suo predecessore, e che nasce sull’idea di raccontare il sentimento della devozione, non intesa sotto il profilo religioso e spirituale, ma come predisposizione a prendersi cura di sé stessi e degli altri, in questi tempi difficili per l’umanità. Un’idea di fondo, questa, che permea le dieci canzoni che compongono la scaletta del disco, dando un senso di completezza e di unitarietà (sia dal punto di vista delle liriche che dei suoni) che mancava del tutto al precedente lavoro. Se infatti il primo disco suonava più come una raccolta di canzoni assemblate per l’occasione, anche perché scritte dalle due ragazze ben prima di affacciarsi al mondo della musica professionista, per Devotion, invece, il metodo di lavoro è mutato radicalmente, e alcuni brani, per quanto buoni, sono state esclusi dalla scaletta proprio perché non in linea con il concept sotteso al progetto. E’ indubbio, quindi, che questo nuovo disco risulti ben più maturo del precedente e, soprattutto sui suoni, Nelly Daltrey e Tuva Lodmark hanno fatto un ottimo lavoro, riuscendo a creare atmosfere piene e avvolgenti a dispetto della scarna line up composta da chitarra e batteria. Tuttavia, alle Pale Honey sembra mancare una marcia in più, soprattutto rispetto ad alcuni gruppi al femminile che hanno intrapreso lo stesso percorso: non hanno la potenza di fuoco delle Savages, da cui si distinguono per un approccio alla composizione decisamente più pop, né possiedono la versatilità delle Warpaint, band con la quale il paragone sarebbe forse più immediato. Qualche buona canzone, tuttavia, non manca: le atmosfere lente e viscose di 777(Devotion, Pt.2), gli echi mancuniani alla Joy Division dell’iniziale Replace Me e la progressione per addizioni e sottrazioni (prevedibile, certo, ma efficace) di Someone’s Devotion riescono a centrare il bersaglio. L’impressione finale, però, è quella di un disco troppo legato ai suoi riferimenti stilistici, che vengono reiterati senza quello scarto di originalità tale da far spiccare il volo alla band. Un disco coeso e sincero, ma privo di audacia e freschezza.