Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
29/10/2021
Don Antonio
Di stagioni buone, di tempo buono, di tempo umano
“…dopo un biennio così difficile non mi meraviglierei se, mentre una fetta del mondo andrà ogni giorno mille volte più veloce del giorno prima, felicissima di ciò, ci fossero persone che scoprono di funzionare a livelli di intensità diversa, più pesata e ragionata. Per quelle persone il racconto di una storia avrà sempre un peso, sia essa una canzone o un libro. E avrà senso raccontarlo” (A. Gramentieri).

Io lo ricordo Don Antonio, uomo di viaggio, quasi apolide, poco incline al cliché e alle maschere e poco dedito al galateo sociale, quello del politicamente corretto (per fortuna, c’è qualcuno ancora salvo dunque).

Non ricordo Don Antonio come un rivoluzionario esuberante, che calcola il tempo preciso per innestare la sua denuncia alla massa, ma lo ricordo al seguito di Massimiliano Larocca o in una taverna della mia terra d’Abruzzo con i suoi Sacri Cuori, dove si parlava, si beveva vino e ci si scambiava cose semplici prima di tornare a casa.

Il lui e in quei ricordi tutto somiglia molto alla sua chitarra, a quel modo sporco di suonare, di ruggine e di terra, come se venisse dal caso, come se il suono e la sua soluzione fossero cose inventate al momento. Una chitarra sicura l’ha definita qualcuno, e la cosa mi piace, oltre ad essere assai vera; una chitarra su cui puoi fare affidamento ma che certamente non ci sta a fare i compitini dettati a scuola dai colletti bianchi del pop patinato delle grandi industrie. Una chitarra sincera, vera, che somiglia all’uomo che se la porta dietro ogni giorno.

È per questo che un poco mi sorprende vederlo in prima persona davanti a tutti, come un vero cantautore, lui che ha sempre scelto l’ombra del chitarrista dove ripararsi, ma è altrettanto vero che non mi sorprende affatto il suono e la forma che cova tra le pieghe di questo lavoro. Che piaccia o meno, ha con sè un pregio infinito: somiglia all’uomo e alla sua chitarra.

Ascolto il disco e riconosco Don Antonio Gramentieri. La bella stagione sa di polvere e di terra anche quando strizza l’occhio ad un pop di alta scuola, anche quando fa il “verso” (con naturale ingenuità) ai cliché del mondo classico, anche quando si lascia andare al suo solito modo di pensare alla musica nel suo insieme. E poi La bella stagione è anche un libro, di racconti, di vita, di fotografie, di momenti, dove la morte incontra la vita, dove il caso incontra il tempo programmatico, dove su tutto, ma proprio tutto, si celebra l’esperienza, che oggi è cosa assai rara.

Sicuramente non è un ascolto che cerca la rivoluzione, non sono letture che imprimono il passo ad una direzione diversa, ma è altrettanto vero che alla rivoluzione pensano soltanto gli assetati di notorietà, gli schiavi dei social e i burattini più omologati di questo santo sistema sociale. La bella stagione è un’opera in vinile e su carta stampata che porta con sé la libertà, il buio e la luce, la regola rispettata de i Maestri servono a qualcosa, ma anche qualche fuori pista sghembo e non solo alle apparenze. Anzi, faccio ammenda di come le apparenze hanno tradito anche il mio di ascolto. Forse manca qualche chiave per aprire le porte importanti di questa narrazione, ma tant’è che l’apparenza tradisce senza troppi indugi. La bella stagione è verità e, che piaccia o meno, fa di questo disco (e di questo libro) qualcosa di prezioso a cui rimandarsi ogni volta.

 

 

È inevitabile parlare di tempo. Per me è un tema assai delicato e ricorrente visto che il futuro digitale in cui viviamo ha ucciso anche il tempo, e penso che questo stesso tempo sia il vero protagonista di questa tua nuova opera. Anche a te chiedo: che rapporto hai con il tempo?

Col tempo ho lo stesso rapporto che ha un bambino nostalgico, che è diventato un giovane nostalgico e ora un adulto nostalgico. Quindi è un rapporto senza dubbio sentimentale, ma forse non sempre così sano. Diventando, appunto, inequivocabilmente adulto, in questi anni mi è interessato "leggere" e in qualche modo fissare questo momento speciale della vita in cui parti del proprio passato diventano davvero molto distanti e tutto quello che puoi ancora decifrare è una sorta di eco, che continua ad orientare certe sensazioni, anche quando l'oggetto, l'esperienza che le ha create, è ormai troppo distante per essere vista o afferrata. È una sensazione simile al sogno, e andava raccontata coi moduli del sogno.

 

A tutti verrebbe da pensare al tempo passato come una bella stagione. Secondo te perché al passato leghiamo sempre legami così profondi e di profonda riconoscenza?

Spesso siamo troppo benevoli col passato, è vero. Però sapere riconoscere - e magari ripercorrere - le proprie tracce e quelle delle persone che abbiamo avuto vicine nelle varie fasi è, in fondo, il disvelarsi del senso più intimo della nostra storia, e dell'esperienza. Non sono sicuro che il sistema analitico dell'autobiografia sia il più adatto, presuppone una precisione e una verità che forse non serve neppure, e rischia di omettere le cose meno tangibili. Di nuovo, a me interessava recuperare sensazioni. E per quelle a volte bastano due parole.

 

Eppure il passato cerchi di esorcizzarlo in molte occasioni quando nel suono cerchi soluzioni moderne, visionarie a loro modo, vero?

Non direi "esorcizzare", ho un ottimo rapporto con tradizione, anche dei suoni. Ho cercato prima di tutto di apprenderne la grammatica, e poi di predisporre ogni volta dei piccoli e affettuosi agguati alle tradizioni, mie e degli altri, per non farle diventare un compitino in bella grafia, un esercizio di stile. Magari lo faccio accostando cose che, viste da fuori, appartengono a momenti e luoghi diversi della musica. Ma sono elementi che coesistono in me, nella mia formazione, e usarli insieme lo trovo onesto e nient'affatto forzato.

 

Ho trovato assai delicato e sottile il confine che hai spesso interpretato tra cliché di arrangiamenti classici e nuove strade personali. Non so bene se pensare a questo come un disco di tua personale avanguardia ed emancipazione o ad un disco di tua personale libertà espressiva, aiutami con l’orientamento.

L'unica avanguardia che concepisco parte da un profondissimo radicamento, un suono che usa il proprio dna e il proprio linguaggio per continuare a proiettare i rami in direzioni diverse, ben conscio delle proprie radici. Non amo il "famolo strano" in quanto tale, affatto. Credo che l'avanguardia sia un'attitudine, non un genere musicale.

 

Che poi, restando sul tema, anche la vivacità dei cambiamenti spesso inattesi mi lascia pensare proprio ad uno sfogo personale, non trovi? Un brano come “Capiscimi” non me lo sarei mai aspettato…

In tutti i dischi più belli e profondi di Lou Reed c'è sempre una sorta di pezzo apparentemente stupido, una specie di rock and roll doo-woop ma che poi è tutt'altro. Il testo di “Capiscimi” è molto forte e personale per me, tutt'altro che leggero. Restituirlo con un vestito sonoro così lo proietta fuori in una maniera che mi interessa, mi solletica.

 

Dimmi di questa voce. Qualcuno potrebbe etichettarla come crooner, qualcuno invece troppo legata a stilemi dei vecchi saggi, De Gregori su tutti. Che significato ha avuto per te il canto, il vestire i panni di un cantautore, che peso ha avuto questa identità - se mi concedi il termine - inedita per un musicista di lunghissimo corso come te?

Non sarò mai un vero cantante, ma ho lavorato spesso con cantanti estremamente comunicativi, a prescindere dalle doti in senso stretto. Dan Stuart, Alejandro Escovedo, poi Hugo Race e Richard Buckner. So quello che cerco, e sono molto conscio dei miei limiti. Alla fine di qualsiasi considerazione a me piacciono i cantanti che raccontano una storia, e alla cui voce posso credere. Non amo le moine, o l'emozione troppo calcata del cantato pop moderno. Quello spleen molto preconfezionato, non è il mio. De Gregori e Paolo Conte sono due giganti, e credo sempre a ogni loro parola. Non mi sento in grado di imitarli, e se fossi in grado non lo farei, ma è chiaro che i Maestri servono a qualcosa.

 

Parliamo di questo libro che fa da corona al disco, o forse è la canzone che fa da corona alle storie di questo libro?

Sono due pezzi di una stessa opera, che puoi guardare anche separati. Non c'è alcuna gerarchia. Nel libro ho cercato la massima asciuttezza, la messa a fuoco del piccolo nocciolo universale di ogni storia personale, anche minima. In questo senso sono due opere senza dubbio apparentate come concetto e come storia, ma senza gerarchia.

 

Su tutto c’è la semplicità, anche quando usi colori di plastica dentro il video di “Capiscimi”, su ogni pagina del libro c’è la semplicità, c’è dentro questo suono a volte randagio e a volte casuale, come ci ha sempre insegnato con I Sacri Cuori e che riconfermi nelle tante collaborazioni che sanno bene come parlare questo linguaggio. C’è questo volto che dai alla vita che non cerca e non vuole etichette “pettinate” dall'industria. Eppure la canzone in qualche modo l’hai confinata dentro le regole della scrittura “pop” (e anche qui uso le virgolette in segno di rispetto). Come hai trovato un equilibrio tra la libertà del suono e il pop d’autore?

A me il pop piace molto. Almeno fino a un certo periodo. Mi piace il suo parlare un linguaggio democratico, il suo misurarsi con la velocità dell'approccio senza farsi travolgere. Ovviamente c'è moltissimo scarto, magari oggi anche l'85% è roba davvero troppo becera, inutile e insincera (che forse è la cosa peggiore delle tre), ma quando una canzone pop è fatta bene è come un piccolo cavallo di Troia che fai entrare senza riserve nelle tue mura, e una volta dentro magari dispiega un altro potenziale. Magari profondissimo. Trovo più vera e onesta una buona canzone pop di molta musica che si autodefinisce di autore. L'industria di oggi, ammesso che esista ancora, ha sempre più bisogno di personaggi, e sempre meno di canzoni che durino più di un jingle da telefonino. Lo trovo legittimo, ma poi ognuno fa le sue scelte.

 

A chiusa, oggi la canzone, che torna anche su vinile, che finisce tra le pagine di un libro, sta rivivendo nuove primavere oppure è un imperterrito viaggio dentro il baratro delle omologazioni di massa, di mode e di stili politicamente corretti?

C'è un po’ di tutto, tutto insieme. Stanno cambiando i modi di fruire le arti, soprattutto perché cambia il tempo che dedichiamo alle cose. Quello col tempo che dedichiamo alle cose è forse il tema chiave del contemporaneo, e l'omologazione a un Gusto Unico Mondiale, e a un sistema valoriale altrettanto eterodiretto e preconfezionato anche. La sbornia tecnologica ci ha distratti, per molti anni, illudendoci che la velocità fosse un valore in sé. Specie dopo un biennio così difficile non mi meraviglierei se, mentre una fetta del mondo andrà ogni giorno mille volte più veloce del giorno prima, felicissima di ciò, ci fossero persone che scoprono di funzionare a livelli di intensità diversa, più pesata e ragionata. Per quelle persone il racconto di una storia avrà sempre un peso, sia essa una canzone o un libro. E avrà senso raccontarlo. Ho deciso di uscire dai social per questo. Ci sono certe storie, e certi percorsi, e certe sensazioni, e certi pensieri, che non puoi aggiustare ogni giorno a quella velocità, con quei moduli, con quei tempi e quelle interazioni, con quel rumore di fondo. Semplicemente ci sono cose che non funzionano così. Diventano tutte uguali, non fanno la differenza per nessuno.