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THE BOOKSTORECARTA CANTA
Dialoghi con Leucò
Cesare Pavese
(Einaudi)
LIBRI E ALTRE STORIE
all THE BOOKSTORE
14/12/2020
Cesare Pavese
Dialoghi con Leucò
“Dialoghi con Leucò” è il libro a cui Pavese era più legato, il “figlio” più amato, quello che lui stesso aveva definito come il suo “biglietto da visita” per i posteri. La critica del tempo, però, lo accolse con una certa freddezza.

“Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride. Non si sa quello che costa.
Non si sa la fatica del rimpianto. Si combatte per gioco e ci si butta a terra morti.

Poi si ride e si torna a giocare.”

 

 

Non amare Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino 1950) è impossibile. E non mi riferisco solo al Cesare Scrittore, ma anche al Cesare Uomo: la sua profondità; la sua cultura; la sua infinita fragilità e quella lucidità di pensiero che lo portava a guardare la vita con gli occhi disincantati di chi sta sempre un passo avanti, consapevole dei limiti delle cose, delle persone – da cui si sentiva spesso deluso e tradito - e della realtà, nuda e cruda.

Quello di Cesare Pavese era un disagio che lo accompagnava da sempre, fin da quando era ragazzo, come fosse l’attore protagonista che si muoveva all’interno di una vita già segnata da quello che sarebbe stato un finale tragico.

In “Frammenti della mia vita trascorsa” – un diario nel diario - una piccola appendice contenuta ne “Il mestiere di vivere”, un giovanissimo Pavese scriveva: “È la mia anima: non posso far nulla per sollevarla dalla sua prostrazione malata di sogno”; e ancora “Soffrire, soffrire, soffrire. E per che cosa? La vita non l’ho chiesta io.”

La consapevolezza e la fragilità, però, possono essere sfiancanti - giorno dopo giorno, prosciugano - perché se vengono a mancare la speranza, la prospettiva e forse anche l’amore per sé stessi, il senso di inadeguatezza prende il sopravvento e vivere si trasforma in una sorta di agonia, in un trascinarsi lento e irrequieto, a tratti rabbioso, in una vita che appare non solo priva di scopo, ma anche di senso.

Quando si arriva a questo punto di non ritorno, probabilmente, non si ha nemmeno più la forza di provare a frugare e scavare dentro sé stessi alla ricerca di una scintilla vitale o della forza necessaria per rimettere insieme i cocci sparpagliati sul pavimento, nel tentativo di ricomporre il vaso.

E ora non voglio peccare di presunzione, ma penso che Cesare, in quella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950, quando a soli 41 anni decise di togliersi la vita in una stanza dell’albergo Roma a Torino, ingerendo più di 10 bustine di sonnifero, si sentisse un po’ così, irrimediabilmente rotto.

Nella sua stanza, su un tavolino, c’era una copia dei “Dialoghi con Leucò”, su cui aveva scritto le sue parole d’addio, asciutte ed essenziali, di una lucidità quasi disarmante: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Dialoghi con Leucò” è il libro a cui Pavese era più legato, il “figlio” più amato, quello che lui stesso aveva definito come il suo “biglietto da visita” per i posteri. La critica del tempo, però, lo accolse con una certa freddezza. Furono pochissime le recensioni dedicate all’opera, così come i consensi ricevuti. Forse un libro troppo complesso, “difficile” - che io definirei geniale - e fuori dagli schemi per essere compreso e apprezzato da un pubblico vasto. Fatto sta che per Pavese fu l’ennesima delusione.

Il titolo originario dell’opera doveva essere “Uomini e dèi”, ma durante la stesura venne modificato in “Dialoghi con Leucò”, come omaggio a Bianca Garufi (leukôs, in greco, significa bianco), la donna di cui Pavese era innamorato in quel periodo e con cui intratteneva una relazione molto profonda - seppur complicata - un po’ come tutte le sue storie d’amore.

Dialoghi con Leucò” è una raccolta di 27 racconti brevi, scritti tra il 13 dicembre del 1945 e il 31 marzo del 1947. Ciascun racconto dà vita a un dialogo in cui si alternano le voci di due personaggi. Tutti i personaggi appartengono alla mitologia greca e sono suddivisi in Dèi e Uomini, declinati anche al femminile. Ciascun personaggio compare all’interno dell’opera una sola volta, fatta eccezione per Leucotea (Leucò, appunto), che è presente in due dialoghi: “Le streghe”, in cui dialoga con Circe e “La vigna”, in cui dialoga con Ariadne.

Ci troviamo di fronte a un’opera indubbiamente diversa dalle altre, non solo per l’uso del linguaggio, ma anche per i contenuti.

I romanzi di Pavese, infatti, sono sempre stati caratterizzati da un uso della parola semplice e immediato, quasi “popolano”, e da storie che traevano spunto dalla realtà: le sue langhe; la guerra; la cultura contadina; la natura e i rapporti tra gli esseri umani, spesso complicati e falsati dalle maschere sociali che un po’ tutti - chi più, chi meno - siamo costretti ad indossare per soddisfare il nostro bisogno di sentirci visti e accettati dagli altri.

Dialoghi con Leucò”, invece - come lui stesso scriveva nella presentazione dell’opera - ci fa conoscere “un nuovo aspetto del suo temperamento”. Messe da parte le campagne e le periferie americano-piemontesi, attinge a piene mani dal suo lato intellettuale, dalla sua grandissima cultura classica e umanistica e ci conduce, regalandoci immagini bellissime, nel mondo della mitologia greca.

Figure come Eros, Circe, Saffo, Orfeo e molte altre prendono vita. La scrittura si fa raffinata, poetica, potente e carica di mistero, perché ogni singolo rigo contiene messaggi da decifrare e interpretare, che sembrano lasciati lì, sospesi, sorretti da puntini di sospensione immaginari che portano chi legge a estraniarsi dal mondo circostante e a concedersi delle lunghe pause di riflessione, che in alcuni momenti si fanno inevitabili, perché servono a metabolizzare e interiorizzare.

Pavese non ci gira attorno, va dritto al punto, e in ogni dialogo utilizza i personaggi di turno come tramiti a cui affidare il suo pensiero su temi di fondamentale importanza per l’uomo; i temi ricorrenti da sempre, quelli che più ci affliggono e ci pongono, privi di difese, dinnanzi alla nostra condizione di finitezza e frangibilità: l’amore, il sesso, la sofferenza, il rimpianto, il destino, l’amicizia e naturalmente la vita e la morte, nel loro senso più profondo.

Particolarmente significativo, a tal riguardo, è un passaggio contenuto nel dialogo tra Patroclo e Achille – “I Due” – in cui Achille osserva come sia ingiusto il non poter ricordare proprio la morte, che è la cosa più dura da affrontare nella vita.  E Patroclo ribatte: “Almeno, uno di noi la potrà ricordare per l’altro. Speriamolo. Così giocheremo il destino.”

In queste poche righe, che hanno il sapore della consolazione dinnanzi all’ineluttabile, può scorgersi quella sorta di delirio di onnipotenza che da sempre accompagna l’uomo nel tentativo e nella speranza di fuggire la morte e battere, in qualche modo, la sua natura fragile. 

Il paradosso, forse, sta proprio nel fatto che - come scriveva Pavese nel suo “Il mestiere di vivere” - “Nei dialoghetti gli uomini vorrebbero le qualità divine; gli dèi le umane… è un colloquio tra il divino e l’umano”, e ancora “Gli dèi per te sono gli altri, gli individui autosufficienti e sovrani, visti dall’ esterno.

Dialogo dopo dialogo, Uomini e Dèi vengono messi a confronto, il mortale e l’immortale: da una parte gli uomini - sempre in balia delle onde - affrontano il loro destino ad occhi bendati, arrancano e combattono ogni giorno della vita senza alcuna certezza e vivono danzando in punta di piedi nel loro presente, tenuti in ostaggio dal rimorso, dal rimpianto, dai ricordi, dalla paura della morte e da una serie interminabile di dubbi e dall’altra gli Dèi che invece vivono una vita senza tempo e ogni singolo giorno sapendo già tutto, come fosse una condanna, al punto che in alcuni momenti sembrano “soffrire” per quella consapevolezza che li accompagna da sempre e che li pone dinnanzi alla vita con gli occhi disincantati di chi non si aspetta più nulla, perché già conosce tutte le risposte. Dèi che in questi dialoghi appaiono quasi umani, o meglio, che si fanno specchio delle paure umane.

"CIRCE: [...] Quello che mai prevedo è appunto di aver preveduto, di sapere ogni volta quel che farò e che dirò – e quello che faccio e che dico diventa così sempre nuovo, sorprendente, come un gioco, come quel gioco di scacchi che Odisseo mi insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d'avorio. Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita. Mi diceva che è un modo di vincere il tempo.

LEUCOTEA: Troppe cose ricordi di lui. Non l'hai fatto maiale né lupo, e l'hai fatto ricordo.

CIRCE: L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnati.

LEUCOTEA: Circe, anche tu dici parole.

CIRCE: So il mio destino, Leucò. Non temere."

Dèi che sembrano la personificazione di quegli uomini che vedono troppo, che sentono troppo e che sanno troppo, per i quali la vita si è trasformata, giorno dopo giorno, in un esercizio di esistenza/resistenza in cui, per sopravvivere, non è chiaro se serva più forza o più incoscienza.

Dialoghi con Leucò è una lettura assai simile a un viaggio esistenziale senza fine e senza tempo, che ha il potere di condurre il lettore in una dimensione ultraterrena, in cui il mito si anima e la mente partorisce immagini cariche di colore, assai simili a dipinti barocchi e quando si arriva alla fine di tutto, non si può fare a meno di pensare che anche - e soprattutto - nel dolore c’è grazia.

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