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REVIEWSLE RECENSIONI
05/02/2020
Dirty Shirley
Dirty Shirley
Tonnellate di decibel, riff grintosissimi e assoli efficaci, si fondono alla perfezione con melodie uncinanti, che talvolta sfiorano l’appeal radiofonico, senza però mai sfociare nel banale o nel prevedibile

L’impatto con questo disco non è dei migliori. La copertina brutta e respingente (invisa agli stessi artisti e, pare, imposta dalla casa discografica) farebbe girare al largo anche il più ottimista degli appassionati. Ed è un peccato, perché l’esordio dei Dirty Shirley, band formata da Dino Jelusic (Animal Drive/ Trans-Siberian Orchestra) e dal chitarrista George Lynch (The End Machine/KXM/Lynch Mob/Dokken), è un disco di hard rock/heavy metal che fin dal primo brano in scaletta promette (e mantiene) sfracelli. Uno di quei dischi, insomma, da mettere nel lettore a un volume esagerato per testare la tenuta delle casse e dei vetri del salotto.

I due, collaborando anche da lontano e coadiuvati dal batterista Will Hunt (Evanescence) e il bassista Trevor Roxx, inanellano, infatti, un filotto di canzoni da urlo, che cita i classici (Ronnie James Dio, Rainbow, Alice In Chains e Soundgarden, tra gli altri), pur mantenendo, nel suono e nelle intenzioni un taglio modernissimo. Tonnellate di decibel, riff grintosissimi e assoli efficaci, si fondono alla perfezione con melodie uncinanti, che talvolta sfiorano l’appeal radiofonico, senza però mai sfociare nel banale o nel prevedibile.

La sezione ritmica pesta di brutto, è solida e quadrata, e innerva di potenza tutti i brani, e il lavoro George Lynch è da veterano del genere: forgia il tiro pesante di riff spaccatutto e dispensa assoli icastici e asciutti, senza mai sbrodolare e farsi prendere la mano. La forza della band, però, risiede soprattutto nella prestazione eccelsa di Dino Jelusik, giovane singer di origine croata, dotato di una voce impostata, potente e dall’estensione notevole, avvezzo al colpo di teatro e con un timbro polimorfo, ottimo sia sui bassi che sugli acuti.

Una sorta di via di mezzo fra Myles Kennedy e Ronnie James Dio, di cui, ad esempio, sembra un clone nell’iniziale Here Comes The King, lungo brano d’apertura che porta nel dna i cromosomi dell’hard/heavy di fine anni ’70 e inizio anni ’80. Il disco è vario e molto divertente, bello nella prima parte, addirittura ottimo nella seconda, in cui l’ispirazione del gruppo sembra levitare. Dirty Blues, canzone che originariamente avrebbe dovuto dare il titolo all’album, spinge di nuovo il piede sull’acceleratore, in un perfetto equilibrio tra classicismo e modernità. I Diseppear è un brano meno immediato, dallo sviluppo più complesso, con echi grunge e continui cambi tempo, The Dying è il momento più melodico del lotto e ben si sposa con la successiva Last Man Standing, il cui riff potente si schiude in un ritornello di facile presa, facendo pensare agli Alter Bridge.

Il passo rapidissimo di Siren Song introduce alla seconda parte del disco, che si apre con l’hard rock blues di The Voice Of a Soul, in cui alla consueta melodia acchiappona del ritornello si accosta un lungo assolo di Lynch, che sale in cattedra, regalando uno dei momenti più intensi della scaletta. La successiva Cold è un colpo al cuore, omaggio agli anni ’90 e al grunge, sottotraccia Alice In Chains e Soundgarden, rievocati da una disumana prestazione di Jelusic, nella cui voce sembra prendere forma il fantasma di Chris Cornell.

Ammicca al grunge anche la successiva Escalator To Purgatory, che inizia rock blues, digrigna immediatamente i denti con un riff assai cupo e si apre poi in un ritornello che sembra uscito dalla penna di Jerry Cantrell. Segue, Higher, altra perla, dallo sviluppo tutt’altro che lineare che si sviluppa in un sali scendi di melodia e potenza, che lascia storditi grazie all’ennesima prova di Jelusic. Chiudono il disco Grand Master, psichedelica e dagli echi indiani, e un alternative version di Higher (forse migliore di quella presente in scaletta), presente come bonus track.

Non è dato di sapere se quello dei Dirty Shirley sia un progetto stabile e destinato a durare, o solo un’uscita estemporanea messa in piedi dalla Frontiers; comunque sia, dischi come questo fanno bene a un genere che troppo spesso annaspa nella mediocrità e nell’ovvio. Consigliatissimo.


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