Uno spirito provocatorio e indomabile e una vibrante consapevolezza arroventano i solchi di Done Come Too Far, ennesimo, splendido disco a firma Shemekia Copeland. E non è certo più una sorpresa. Figlia del defunto grande bluesman texano, Johnny Copeland, la quarantreenne musicista originaria di New York, è stata una presenza iconica fin da quando ha debuttato, era appena adolescente, alla fine degli anni '90. Un percorso in crescendo, il suo, che l’ha portata a lavorare con luminari del genere, quali Steve Cropper e Dr, John, e a pubblicare una decina di dischi in proprio, i migliori dei quali rilasciati negli ultimi quattro anni, da quando, cioè, ha intrecciato un forte sodalizio con il chitarrista, produttore e songrwriter di Nashville, Will Kimbrough.
Done Come Too Far è il seguito degli ottimi America's Child del 2018 e Uncivil War del 2020, figlio della stessa rabbia, della stessa lucida visione, del medesimo intenso approccio senza compromessi. Sul tappeto sonoro di un solidissimo songwriting approntato dal pigmalione artistico Kimbrough e da John Hahn, produttore esecutivo e coautore di quasi tutti i brani, la Copeland getta uno sguardo tagliente sul proprio paese, incarnato nel punto di vista di una donna e di una madre di colore, che mai come oggi ha acquisito la stessa autorità morale di chi non ha mai tradito il proprio credo e non è mai retrocessa, nemmeno di un passo, dalle proprie scomode posizioni politiche.
“Puoi uccidere un uomo, ma non un sogno", canta Shemekia Copeland in "Too Far To Be Gone", il rovente blues rock che apre il disco come una ferma dichiarazione d’intenti (il grande Sonny Landreth è ospite alla slide guitar). Rabbiosa e vibrante è anche la successiva "Pink Turns To Red", trascinata da un riff stonesiano, e indignato j’accuse nei confronti della società americana, che infligge un’ingiustificata violenza ai bambini a causa di una cultura delle armi ormai fuori controllo. Un uno due da ko, che mette subito in chiaro che la Copeland non si limiti a interpretare grandi canzoni, ma ci metta sempre la faccia, l’idea, il pensiero, la militanza.
Così, nell’acustica, cruda e straziante, "The Dolls Are Sleeping" Shemekia punto il dito su un altro flagello della società, e cioè, gli abusi sessuali sui minori. Quanta intensità alberga in queste parole vestite in abiti francescani, la stessa che si trova in "The Talk", un blues a lenta combustione con cui una madre si rivolge al proprio figlio mettendolo in guardia sui pericoli del mondo.
La critica politica e sociale, però, per quanto potente, non esaurisce i contenuti della scaletta, e la varietà dei temi trattati, così come la diversità musicale che contraddistingue le singole tracce, sono elementi tutti che danno all’album forza e ricchezza emotiva. La title track è un blues cupo e urticante, scartavetrato dalla voce e dalla chitarra di Cedric Burnside, "Why Why Why", scritta dalla folk singer Susan Werner, possiede un sublime arrangiamento country-soul che si dispiega su un tappeto di velluto creato da organo, pianoforte e chitarra slide, e mostra la Copeland nella sua veste più dolce e vulnerabile.
La divertita "Fried Catfish and Bibles", un'esplosione contagiosa di zydeco spinta dall’allegra fisarmonica, è un invito a ballare leggeri sugli affanni della vita, mentre la seducente "Barefoot in Heaven" di Ray Wylie Hubbard, inietta massicce dosi di gospel, e "Dumb It Down" gioca sorniona su un irresistibile groove funky.
Come al solito, la Copeland inserisce in scaletta una canzone di suo padre, chiudendo il set con la ruspante e torrida "Nobody But You". Un modo, questo, per rendere grazie all’amato genitore e, soprattutto, per ricordare la stretta connessione della cantante con le proprie radici blues, genere che la Copeland, grazie a dischi come questo Done Come Too Far contribuisce a mantenere vitale, conferendogli anche moderna rilevanza.