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REVIEWSLE RECENSIONI
Don’t Talk About It
Ruby Boots
2018  (Bloodshot Records)
AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS ROCK
7,5/10
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27/02/2018
Ruby Boots
Don’t Talk About It
A dispetto della nuova residenza, universalmente riconosciuta come patria del country, in questo secondo disco le influenze e i suoni roots, rispetto all’esordio di tre anni fa, sono ridotti al lumicino, quasi insussistenti.

Dopo un pugno di Ep, pubblicati tra il 2010 e il 2014, la carriera dell’australiana Ruby Boots, nome de plume di Rebecca Louise “Bex” Chilcott, ha avuto una brusca impennata nel 2015, con la pubblicazione del suo primo full lenght, intitolato Solitude. Premi e riconoscimenti ottenuti in patria, la firma con la prestigiosa etichetta Bloodshot Records e il trasferimento a Nashville, dove la songwriter, originaria di Perth, ora vive e lavora, sono state le ulteriori tappe che hanno portato alla pubblicazione di Don’t Talk About It.

A dispetto della nuova residenza, universalmente riconosciuta come patria del country, in questo secondo disco le influenze e i suoni roots, rispetto all’esordio di tre anni fa, sono ridotti al lumicino, quasi insussistenti. Registrato a Dallas, presso i  Modern Electric Sound Recorder Studios, prodotto da Beau Bedford e corroborato dal contributo dei The Texas Gentlement, session band dinamicissima,  Don’t Talk About It propone, infatti, una scaletta di sferzante pop rock, perfettamente in equilibrio fra modernità indie e un accattivante appeal radiofonico.

Pimpante come Nikki Lane (qui presente a dare una mano ai cori e come coautrice di un brano) e graffiante come la prima Lydia Loveless, Ruby sfoggia un’incredibile attitudine rock, alza il volume delle chitarre,  assecondando il suono molto immediato e potente della sua backing band. E non dimentica, tuttavia, anche il gusto per melodie di facile presa, distribuendo in scaletta alcune ballate davvero riuscite.

Apre il disco l’ispido punk rock di It’s Cruel, la batteria pestata a sangue, le chitarre sferraglianti e la voce impertinente di Ruby a mettere subito le cose in chiaro: chi si attendeva delicatezze pop country come Wrap Me In A Fever e Midlle Of Nowhere dal precedente lavoro, è pregato di cambiare canale. Le chitarre, infatti, si fanno arroventate anche in Somebody Else, power pop che corre dritto come una Mustang decapottabile verso l’orizzonte, scaricano kilowatt di elettricità nel finale percosso di Believe In Heaven, omaggiano grintose Tom Petty nel rock virile di Easy Way Out  o duettano, intrecciando cromatismi byrdsiani, nel coloratissimo pop rock di Infatuation.

Poi, ci sono anche le ballate, in cui Ruby dimostra di avere la mano caldissima, come nella title track, che avrebbe ben figurato in un disco dei migliori Cranberries, o nella splendida I’ll Make It Through, le cui atmosfere noir si schiudono nella luce di un ritornello la cui bellezza non fa prigionieri. Chiude la scaletta Don’t Give A Damn, con in evidenza i Texas Gentlement a creare una febbricitante atmosfera rock gospel.

Brano, questo, che sigilla al meglio un album diretto e divertente, in cui Ruby dimostra di avere tante frecce al proprio arco e di saper cogliere bersagli molto distanti da quel country che aveva (ben) caratterizzato i suoi esordi.