Del legame tra arte e sofferenza si è detto e scritto tanto e non è certo il caso di aggiungere parole superflue. È comunque una constatazione inevitabile nell’ascolto del nuovo disco di Bonetti. A due anni da “Camper”, l’ironia e la leggerezza che ne ammantavano l’esordio sembrano essersi del tutto dissipate, in favore di una malinconia riflessiva e di una tonalità in minore, oltre che di atmosfere dimesse.
Il titolo, le foto promozionali che lo ritraggono come un soldato al fronte, sono già indicatori significativi di cambiamento. Il desiderio di fuga cantato con svago e disincanto su “Camper” pare essersi improvvisamente arenato. La guerra di cui si racconta nella title track ed evocata indirettamente anche in altre canzoni, è una metafora efficace per rappresentare uno sconvolgimento allo stesso tempo improvviso, drammatico e naturale.
Potrebbe trattarsi di una rottura amorosa e molti indizi lo lasciano intravedere. Non è però importante decodificare i segnali. Quel che conta è sapere “cosa tiene su le cose”, come canta nel secondo brano. Già, cosa permette di stare in piedi quando tutto crolla? Oppure, cosa permette all’esistenza di non crollare su se stessa?
Domande irrinunciabili, nel momento in cui la vita, che tutti in un dato momento pensiamo di poter possedere, definire, calcolare, si presenta come “mani appiccicose di frutta bagnata” e si è costretti a farci i conti, volenti o nolenti.
Perché la guerra prima o poi arriva. La vita non è nostra, per quanto possiamo anche illuderci che sia così. Possiamo anche “ridere con la vita negli occhi e il futuro in mano” ma se arriva la guerra bisogna starci davanti. Che poi vuol dire combattere, accettare che si spostino le geografie, che cambino le abitudini, come canta nel testo, accettare di divenire “soldati armati di nulla a difendere le nostre solitudini”.
La guerra però non dura per sempre. E quando finisce si può ripartire. Armati di nuove esperienze, corazzati da nuove armature. “Io ho deciso quest’estate vado in Portogallo, dove il sole è giallo, dove c’è un oceano grosso. Voglio guardarci dentro e veder le mie paure, le nostre grida e quelle sue stanze divorate dai mostri degli abissi.”. Canta così, ne “Il futuro” e sembra quasi di risentire gli stessi progetti dei tempi di “Camper”. Con la differenza che stavolta, nel mezzo, è successo qualcosa, le stanze in cui si viveva sono state divorate dai mostri ma è nato qualcos’altro, c’è una nuova casa in cui abitare, nuovi sogni da seguire.
“Dopo la guerra” è il disco che Bonetti doveva fare per confermare le buone impressioni del debutto e allo stesso tempo dimostrare di poter crescere esponenzialmente come autore. Missione compiuta, direi. Siano state o meno le difficoltà personali, la scrittura di Maurizio si è fatta più profonda e consapevole, magari più seriosa (anche se nel blues elettrico e vagamente sgangherato di “Gerani” si intravedono sprazzi dell’antica ironia) ma senza dubbio più matura e interessante di prima. In tutto questo, con la precisazione che già “Camper” ci era piaciuto parecchio.
Se l’iniziale “Correre forte” (da cui è stato tratto un video molto suggestivo ambientato in parte in Giappone) e la successiva “Cosa mettono nei muri” si rifanno al primissimo De Gregori (quello del secondo disco in particolare), “Eleonora” e “Dobbiamo tirar fuori qualcosa” rievocano piuttosto i Diaframma della seconda metà degli anni ’90. In particolare quest’ultima è il vero punto centrale dell’album, il pezzo dal valore più alto, quello che se riuscisse a scriverlo Fiumani tutti acclameremmo come un capolavoro.
Sopra un languido tappeto di Synth, una narrazione urgente e quasi disperata, ancora una volta sull’urgenza di vivere, di non perdere tempo. Un quadro davvero incantevole di due amanti che intravedono una data di scadenza, provano a resistere ma non possono sottrarsi all’inevitabilità delle cose. La voce di Maurizio è qui al top dell’intensità, con piccole stonature e imprecisioni che la rendono ancora più vissuta, figlia dell’istante. Tra una citazione degli Smiths e un rimando ai Teenage Fanclub, un brano che fotografa il presente e allo stesso tempo possiede l’universalità dei grandi classici.
Grandi classici che sono evocati in maniera più leggera in “Gerani”, che potrebbe essere intesa in qualche modo come la controparte ironica del brano precedente: qui è il celebre racconto di Flannery O’ Connor ad essere tirato in ballo: il vaso di gerani che cade dal balcone alla fine della storia, elemento catalizzatore della vicenda di un anziano costretto dalla figlia a trasferirsi nel cuore di Manhattan, abbandonando così il suo amato sud, finisce in una canzone che sembra aver a che fare con l’alienazione, con la difficoltà di sentirsi a proprio agio con lo spazio che si occupa nel mondo.
Prodotto da Fabio Grande, da questi arrangiato assieme a Pietro Paroletti e allo stesso Bonetti, suonato da un gruppo di musicisti valido e affiatato, “Dopo la guerra” è un lavoro minimale ma allo stesso tempo curatissimo, scarno ma anche profondamente essenziale.
“Il mio amore ha paura per il male che ha avuto e ha le gambe molli ma non vuole un appoggio, vuole tempo e fiducia e lo sguardo stupito dei cani per strada quando vedono un prato.” Così canta in “R.”, il pezzo conclusivo, quello che ha tutto il sapore del nuovo inizio di cui parlavamo prima. Speriamo davvero che il talento di Bonetti venga riconosciuto e che “Dopo la guerra segni l’inizio della sua consacrazione: sarebbe davvero un peccato se un disco del genere dovesse passare inosservato.