Inevitabile tirare in ballo le vicissitudini interne, per parlare del nuovo album dei Big Thief, che arriva a tre anni di distanza dal precedente Dragon New Warm Mountain I Believe in You, uscita importante che ha contribuito non poco ad aumentare la visibilità del gruppo americano.
Durante i lavori per il suo successore c’è stata la fuoriuscita del bassista Max Oleartchik, in line up sin dall’inizio e fondamentale nella definizione del sound della band. Le ragioni dello split non sono chiare. Ci sono sospetti che possa in qualche modo c’entrare il conflitto a Gaza, con il precedente del 2022, quando il gruppo annullò un concerto a Tel Aviv ed Oleartchik, nato in Israele, non la prese benissimo. Il fatto che ancora oggi, a un anno di distanza, le parti in causa si rifiutino di far luce sulla vicenda, dimostra in un certo senso che tale teoria non sarebbe poi così campata in aria. Adrienne Lenker e compagni hanno preferito rinunciare a trovare un sostituto e si sono trasformati in un trio, così che la ricerca di una nuova funzionalità con un assetto così diverso, ha per forza di cose condizionato gran parte di quest’ultimo periodo.
Logico, a questo punto, che il nuovo album rifletta in generale l’idea che i cambiamenti vanno abbracciati, piuttosto che temuti. Difficile, tuttavia, trovare la quadratura all’interno di un contesto così mutevole. In un primo momento l’idea era quella di replicare il metodo di lavoro dei due album precedenti: trasferirsi in una località remota e qui, lontani da ogni distrazione, scrivere e registrare i brani. Sono arrivati fino a costruire da zero uno studio (non hanno specificato dove, hanno solo detto "da qualche parte nel Nord-Est") e il progetto era quello di virare su sonorità Heavy Rock.
Non se ne è fatto nulla: le idee non venivano, mancava l’entusiasmo e così i tre superstiti si sono trasferiti al Power Station di New York, dove hanno suonato nove ore al giorno per tre settimane, stando a vedere che cosa sarebbe venuto fuori. Con loro anche alcuni amici, che hanno riempito i vuoti e offerto un contributo prezioso: Joe Nellen (Ginla), Mikel Patrick Avery (Natural Information Society) e Laraaji, quest’ultimo un multi strumentista molto lontano dai loro canoni, che ha dato un’identità del tutto peculiare ad un brano come “Grandmother”.
Alla fine si può dire dunque che Double Infinity, tra mille difficoltà, sia il disco che davvero volevano fare. Un disco decisamente breve, ma è quasi fisiologico, dopo le dimensioni monstre del precedente.
Adrienne Lenker si conferma autrice sopra la media e arriva decisamente arricchita dalle recenti collaborazioni con altre voci (Alena Spanger, Hannah Cohen e June McDoom).
Posto che l’efficacia della dimensione a trio si vedrà effettivamente dal vivo, perché in studio la possibilità di effettuare sovraincisioni rende meno grave il problema, sembrerebbe che la strada scelta per risultare comunque vincenti sia stata quella di puntare il più possibile sul groove: se l’iniziale “Incomprehensible” si muove tutto sommato sulle coordinate solite, la successiva “Words” risulta meno immediata; in ogni caso, entrambi i pezzi fanno abbondante uso di percussioni, soluzione che condividono con gran parte della scaletta.
Per il resto, suono pieno e ispirazione altissima, esattamente come al solito, un trademark stilistico che non risulta per nulla stravolto: “Los Angeles”, ipnotica e spensierata, tra echi springsteeniani ed un testo denso di quotidianità autobiografica come ormai Lenker ci ha abituato. Il batterista James Krivchenia fa un bellissimo lavoro su “All Night All Day”, che si avvale anche di melodie vocali di struggente bellezza, inserti di piano ed un basso che riempie alla perfezione.
La title track è altrettanto vincente, tutta basata su un piccolo nucleo melodico che si ripete, variando di volta in volta il tessuto di accompagnamento. Notevoli anche i sette minuti di “No Fear”, con la sua lunga intro di basso e batteria che costruisce gradualmente lo spazio per una melodia piano e voce, impreziosita dai fraseggi dell’elettrica di Buck Meek. Anche qui c’è poco di immediato, dominata com’è da un mantra ipnotico che sembra essere tra le soluzioni preferite adottate in queste nuove canzoni (anche “Happy With You” segue questo schema.
Splendida anche la conclusiva “How Could I Have Known”, trascinante nonostante l’atmosfera malinconica, che ha reminiscenze Country ed un violino che ne accresce il fascino.
“We are made of love, we are also made of pain”, cantano in “Grandmother”, esempio significativo di un disco che si interroga sul rapporto tra mortalità e desiderio di essere amati, approdo sospirato di un percorso faticoso, che nonostante tutto ha riconfermato la band statunitense tra i nomi migliori del panorama Indie Folk, nonché una delle più importanti all’interno della scena indipendente.