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REVIEWSLE RECENSIONI
14/05/2025
The Darkness
Dreams On Toast
Un ritorno coi fiocchi, quello dei Darkness, che in poco più di mezz'ora spaziano fra diversi generi con risultati sempre eccellenti.

Una delle frecce più acuminate dell’arco Darkness è sempre stata quella, pur in un alveo ben consolidato di fonti di ispirazione, di provare di mischiare le carte, cercando con sfrontatezza di diversificare la proposta. Da tempo, però, mai era venuto fuori un album così eclettico e ispirato come quest’ultimo Dreams Of Toast, un vero e proprio zibaldone musicale in cui ogni singola canzone possiede una propria identità, che la diversifica dalla altre. Tanto che questo nuovo lavoro è probabilmente il migliore da quei due gioielli pubblicati ormai da una ventina d’anni che erano il fulminante esordio Permission To Land (2003) e l’ottimo seguito One Way Ticket To Hell…And Back (2005).

Poi, qualcosa si è inceppato. Justin Hawkins può permettersi, allora, di dire che la sua band "non ha mai smesso di sfornare album di successo, solo che nessuno li compra più", ma così facendo sta solo mettendo le mani avanti. Perché i dischi dei Darkness, almeno in Inghilterra, hanno sempre venduto bene, a discapito, però, di un’ispirazione sempre meno accesa e lavori non all’altezza dei due nobili predecessori. Quindi, ben venga questo nuovo Dreams Of Toast, un disco solo apparentemente confusionario, figlio semmai del desiderio della band britannica di tornare a essere rilevante, dimostrando di saper maneggiare con consapevolezza diversi generi.  

 

I Darkness hanno messo in piedi la consueta scaletta di una decina di pezzi, restringendo ancor di più il minutaggio (trentatre minuti circa), e strapazzando lo shaker del rock and roll con l’aggiunta di pop, country, hard rock e diverse erbe aromatiche. Non manca, ovviamente, la consueta dose di sfacciataggine e ironia, Justin Hawkins è riuscito, poi, nell’impresa di rendere residuale il suo falsetto (per alcuni da sempre considerato il punto debole della proposta) e tutti sono riusciti a mettere in evidenza i rispettivi punti di forza, tarandoli alla perfezione. Forse è per questo che si sono sentiti abbastanza coraggiosi da pubblicare, fino a oggi, ben sei singoli tratti dall’album.

Dreams On Toast è un ottimo disco, ma talmente eterogeneo da poter soddisfare i gusti più disparati.

"Rock and Roll Party Cowboy" apre il disco con una fucilata rock blues che potrebbe ricordare gli ZZ Top, se non fosse per la consueta dose di ironia nel cantato. Chitarra scatenata e ritornello grezzo quanto basta per far breccia nel cuore dei rocker di lungo corso. "I Hate Myself" è un altro missile sparato ad alzo zero, un rock’n’roll vecchia scuola, roba Cheap Trick, adrenalinico e innervato dalla tensione di un lussurioso sax. "Hot On My Tail" vira in acustico, tra folk, pop e una puntina di Queen, è un brano melodico e acchiappone, così come lo è il riff all’AC/DC di "Mortal Dread", un numero da far saltare come matti sotto il palco, mentre le chitarre sfrigolano di sudore, fino almeno all’improvvisa e straniante svolta gotica verso la fine del brano, che si trasforma, poi, nuovamente in un boogie infuocato.

"Don’t Need Sunshine" è la canzone che vale il prezzo del biglietto, una splendida ballata che richiama alla mente gli ELO, mentre la successiva "The Longest Kiss" porta l’ascoltatore a Liverpool alla corte dei Fab Four. E se "The Battle for Gadget Land" spinge di nuovo il piede sull’acceleratore derapando in territori punk/stoner, la band britannica dimostra una rinvigorita e straordinaria versatilità, misurandosi anche con il country di "Cold Hearted Woman", accattivante, piacevole, e vagamente malinconica.

Chiudono la breve scaletta l’irresistibile "Walking Through The Fire", rock da FM intriso di nostalgia anni ’80, e "Weekend In Rome", che omaggia il nostro paese, attraverso una melodia pop dolce e carezzevole, che si gonfia grazie all’arrangiamento orchestrale e alla sfacciataggine di Hawkins, che gigioneggia con un timbro operistico alla Freddie Mercury.

 

Dreams On Toast è un disco eterogeneo, al cui interno non c’è solo tutto ciò di cui ha bisogno un album dei Darkness, ma molto di più. Quel retrogusto ironico, quel senso da “non ci prendiamo troppo sul serio” è il collante che tiene in piedi una scaletta variopinta, in cui un rock’n’roll sfacciato e un po’ pomposo torna a scalciare come nei giorni della miglior gloria, mentre l’innata capacità melodica della band assume diverse sfaccettature, trasformando questo nuovo lavoro in un disco un po’ matto, ma divertente come pochi.