“Du Chevalier qui fist les cons parler” è il titolo di un fabliau, tipico racconto breve d’uso in Francia risalente al tredicesimo secolo, attribuito ad un tal Garin; narra di un cavaliere dall’incredibile capacità di far parlare le vagine. Possiamo affermare che di questo tema, tipico della satira, sono presenti tracce in molte opere letterarie, anche antecedenti al Medioevo. E proprio perché il cliché è quantomeno satirico, goliardico e volgare, è stato fonte di ispirazione per la produzione e sceneggiatura di uno dei film pornografici che ha fatto la storia del genere, “Gola Profonda”. Che l’epiteto sia da sempre utilizzato all’interno di determinati registri linguistici e letterari, è una verità tanto ovvia che non dovremmo neppur sprecare la battitura di una virgola per entrare nei dettagli. L’insulto, lo sberleffo, l’oscenità sono da sempre utilizzati come mezzo espressivo, come mezzo, sottolineo, non come fine. Se quindi è vero che all’interno di un articolo l’ingiuria è accettata se il registro lo prevede, è vero anche il contrario. Non tutti infatti accolgono con naturalezza l’uso della volgarità, ritenendolo un depauperamento non necessario, un azzardo ostentato, una forzatura. Mio padre è un amante di Gioachino Belli, mia madre per contro, difficilmente lo tollera. Resta tuttavia chiaro ad entrambi che l’esistenza del genere è un dato di fatto. Questa premessa era doverosa in quanto, pur non rientrando in modo alcuno nella categoria degli scrittori o in quella dei giornalisti, scrivo da sempre. Avendo l’enorme fortuna di scrivere per me e pochi intimi, scrivo da sempre e come mi pare. Le parole che scrivo sono l’abito che indosso in base all’umore.
Ho vissuto inverni emotivi importanti che richiedevano, lo anelavano, un dolore espressivo a tratti violento. Primavere dal sapore banale di rinascita ed altre dall’olezzo di menzogna. Per ognuno di questi attimi ho confezionato un abito diverso. Abito che trovo nella quantità di scritti, perlopiù privati, che riempiono Cloud, sparsi qua e là. Cloud e quaderni. Scritti che odorano ancora di Bic. C’è una stagione per le poesie malamente assemblate, lacunose nello stile e anche nel contenuto. C’è la stagione dell’indagine psicologica (che di solito corrisponde con quella degli inverni emotivi) e c’è la stagione dell’esser scanzonato. Quella, non dico della maturità, ma della presa di coscienza di aver, ribadisco, l’assoluta libertà di scrivere nel registro che più ci corrisponde. Ed il mio, attualmente, è quello della satira. Accade però che, mentre si polemizzava in relazione ad un mio "articolo" (Era meglio morire da piccoli) considerato grossolano, egoriferito e a tratti vile (in quanto firmato da uno pseudonimo) sia stato persino messo in dubbio il mio genere.
Una donna non può aver scritto tali volgarità. Già… Perché io, che sono donna, se mi spingo nell’utilizzo di un registro a me caro, usuale, che trovo divertente e stimolante, sono una di “bassa lega”. Un popolino starnazzante di quelli che, ohibò, guardano magari anche i giochi a premi in TV. Le critiche sono sempre occasioni di crescita e approfondimento (laddove abbiano senso ed il tema si meriti tanto sforzo) ma in questo caso specifico no. Non è occasione di crescita per nessuno leggere che difficilmente una donna potrebbe esprimersi con una terminologia da stadio. E’ sottile, viscido, scivoloso, me ne rendo conto. Ma mi è rimasta lì questa cosa. Non l’esser di bassa lega, lo scriver bene o male, l’esser accusata di aver un ego smisurato e fuori luogo. Di quello, alla Rhett Butler, francamente me ne infischio. Non mi infischio invece della possibilità di essere una donna che si esprime anche volgarmente e che, aldilà del quotidiano, lo fa quando scrive. Questo non toglie una virgola al mio essere donna, come non toglie una virgola all’esser donna il non saper cucinare di molte o l’assertività di altre.
Quindi, tu non sei “più uomo” se ami il calcio al posto del pattinaggio su ghiaccio ed io non sono “più o meno donna” se pogo ai concerti e scrivo sberleffi. E’ una sottile, precisa e metodica forma mentis che, ahimé è difficile da estirpare nonostante gli studi, la cultura o l’allure da intellettualmente progressisti. E’ un tarlo che scava dalla notte dei tempi nella coscienza di moltissime donne, la necessità di sentirsi definite all’interno di parametri precisi. Cucina/donna, divano/uomo, faccende domestiche/donna, amore/donna, sesso/uomo e così via, sino a diventare quel mostro che come un parassita alberga nel tuo corpo e, senza che tu te ne accorga, si nutre.
Ecco, è quello, chirurgicamente programmato per inquinare ogni ragionamento. Non è un volermi focalizzare su qualcosa che focus non era. IL focus della critica, come ho già detto, ha radici che stanno nella non comprensione del testo e della sua cifra, nel gusto personale ed in svariate motivazioni più che plausibili. E’ il muschio sotto le piante ad avermi colpita. La famosa “i” su cui mettere i puntini.
La mia necessità di rivendicare la possibilità di scrivere scurrilità senza leggere o sentirmi dire “Mi risulta difficile immaginare sia donna”.
Stocazzo.