Pensavamo che il post Covid avrebbe portato una qualche forma di riequilibrio e riassestamento nel mercato della musica dal vivo ma è avvenuto esattamente il contrario: le tendenze già presenti si sono esasperate e, al netto di un’offerta che non è mutata e che per certi versi risulta addirittura aumentata, la situazione è rimasta fortemente squilibrata. Da una parte ci sono sempre i grandi eventi, sempre più numerosi e sempre più grandi, ad appannaggio dei soliti nomi ultra mainstream; nonostante le lamentele per il costo dei biglietti, che hanno reso questi appuntamenti non più fruibili da ogni classe sociale, il sold out arriva sempre puntuale, alla faccia di ogni allarmismo sulla situazione economica dell’Italia.
Dall’altra parte, una marea di concerti piccoli, di band più o meno emergenti, più o meno conosciute, in venue che oscillano tra le centinaia e le poche migliaia di spettatori. È ovviamente qui che bisogna recarsi, se si vuole un assaggio di ciò che davvero sta succedendo nelle varie scene musicali; eppure, fatta eccezione per gli act più conosciuti, a cui sono riservati club di grosse dimensioni come Fabrique o Estragon, tutto il resto fatica a suscitare una risposta soddisfacente e non di rado capita che il gruppo di turno si esibisca in locali semivuoti.
Se a questo aggiungiamo il rincaro generale dei prezzi di tutta la filiera, con la conseguente difficoltà per molte band e solisti di andare in tour o di raggiungere un vasto numero di paesi (e normalmente il nostro è il primo sulla lista di quelli che saltano), possiamo dire che non ce la passiamo affatto bene.
La stagione estiva normalmente porta un po’ di sollievo, perché nonostante il nostro provincialismo e la nostra scarsa propensione alla curiosità, la penisola è piena di appuntamenti di rilievo, per scoprire realtà valide. Non si può ancora parlare di veri e propri festival (a parte Ypsigrock sarà difficile vederne altri, soprattutto ora che anche TOdays ha chiuso i battenti, per lo meno nella versione in cui lo abbiamo conosciuto) ma sul fronte delle rassegne concertistiche ci sono diversi motivi per cui gioire.
Abbiamo raggiunto per telefono i direttori artistici di quelli che possono senza dubbio essere ritenuti tra i fiori all’occhiello della nostra programmazione estiva: Tener-A-Mente, che si svolge nell’affascinante cornice dell’Anfiteatro del Vittoriale a Gardone di Riviera (Brescia) e Sexto ‘N Plugged, nello splendido borgo medievale di Sesto al Reghena, in provincia di Pordenone.
Due location magnifiche, valore aggiunto per pubblico e artisti, a cui si uniscono però da sempre proposte di altissima qualità, attenta a valorizzare diversi generi e bacini di utenza quella del Vittoriale, più incentrata su Indie Rock e affini quella di Sexto (anche se nelle ultime edizioni c’è stato qualche piccolo cambiamento).
Ne abbiamo parlato con Viola Costa (Tener-A-Mente) e Fabio Bortolussi (Sexto).
Potete fare un bilancio della scorsa edizione? Com’è andata?
Viola Costa. L’edizione scorsa è stata veramente un’edizione memorabile. Sicuramente dal punto di vista del ritorno del pubblico, non solo in termini numerici ma anche di entusiasmo, partecipazione e riconoscimento del nostro lavoro organizzativo. Gli spettatori sono stati quasi 27mila, che per noi vuol dire un indice di riempimento del 100% tutte le sere, cosa che per un teatro all’aperto è sempre un grande risultato. Tra l’altro si è trattato di un pubblico molto eterogeneo, anche per quanto riguarda le provenienze geografiche: abbiamo avuto spettatori da 62 nazioni, che sono più o meno quelle che ci sono state complessivamente nelle prime 11 edizioni. Poi c’è da dire che è un pubblico molto motivato, che acquista in prevendita con largo anticipo: ad oggi abbiamo venduto circa 20mila biglietti e siamo solo ad inizio maggio, quindi è un pubblico di veri fan. Costruire un’esperienza indimenticabile, che sia da “tener a mente” per pubblico e artisti, questo è quello che vogliamo fare e ci fa piacere constatare che ci sia questa risposta.
Fabio Bortolussi. Lo scorso anno credo sia stata una delle migliori edizioni di sempre. Arrivavamo dal Covid, sappiamo che sono stati anni drammatici, per l’umanità tutta e anche per chi fa questo tipo di eventi. Noi non ci siamo mai fermati, abbiamo sempre fatto il festival, sia nel 2020 sia nel 2021 però le due ultime annate hanno rappresentato un po’ la riscossa, un nuovo inizio, se andiamo a fare una valutazione globale (questo è il diciannovesimo anno) sono edizioni che ci hanno dato grandi soddisfazioni; discorso che vale in particolare modo per l’anno scorso, dove abbiamo avuto una risposta di pubblico che non vedevamo più da tanto tempo.
Avete in mente qualche particolare highlight? Concerti che vi sono rimasti impressi più di altri?
Viola Costa. Ce ne sono tanti, è difficile dirlo. Quello che attendevo di più era senza dubbio Damien Rice, ed è stata una bellissima serata; poi io sono un’amante di Nils Frahm, per cui anche il suo concerto mi è piaciuto molto. Mi ha colpito in particolare il suo rapporto col pubblico, visto che non ha fama di essere il personaggio più empatico di questo mondo. Ha presentato il suo nuovo album, che ha scritto durante il Covid e che aveva suonato solamente davanti al suo gatto, prima d’ora. È stato forse per questo motivo che quando, durante il concerto, il cane di uno spettatore si è messo ad abbaiare un po’ forte (noi abbiamo questa policy per cui anche i cani sono ammessi, pur con le dovute cautele), lui non si è affatto spazientito come temevamo ma anzi, si è illuminato e ha appunto raccontato questo aneddoto del gatto. È stato bellissimo anche il concerto dei Kaleo e assolutamente indimenticabile quello di Herbie Hancock, grande personaggio che ha scritto la storia del Jazz, con un repertorio fantastico.
Fabio Bortolussi. Ogni edizione ha le sue caratteristiche, l’anno scorso la serata dei Verdena è stata di grande successo, ma quella che mi porto di più nel cuore è stata quella dei Dry Cleaning, un gruppo tagliato su misura per una piazza come la nostra, tanto che loro stessi hanno riconosciuto la bellezza e la magia della location, dicendo addirittura che si è trattato del posto più bello dove avessero mai suonato.
Chi vi frequenta abitualmente conosce benissimo quali sono i punti di forza delle vostre manifestazioni, ma che dire a chi non ci è mai venuto? Per quali motivi direste che si tratta di appuntamenti imperdibili?
Viola Costa. È imperdibile perché è calato in un contesto che aggiunge bellezza alla bellezza. È una risposta banale e sicuramente potremmo trovare un sacco di altre buone ragioni, però questa rimane la principale: siamo in un contesto talmente scenografico da incantare il pubblico ma anche gli artisti. Si percepisce subito di essere in un luogo particolarmente adatto alla fruizione degli spettacoli che proponiamo. Spesso sul nostro palco passano artisti che hanno un repertorio che non si addice ad essere ascoltato da seduti. Eppure, questo è un luogo dove tutto favorisce l’ascolto e la visione, crea una dimensione diversa da quella che può essere quella di una grande piazza, in piedi, saltando, con la birra in mano. Va benissimo anche quello, ovviamente, però la nostra è una situazione particolare, è un luogo davvero fatato per cui chi ci viene, anche se è la prima volta, si adegua immediatamente. È un tema su cui ci sarebbe da riflettere, perché purtroppo il mondo della musica e degli spettacoli dal vivo (penso ad esempio al teatro) sta ancora vivendo una situazione difficile, per molti versi dopo la pandemia non si è ancora ripreso e a tutt’oggi ci sono problemi di riempimento notevoli. Dovremmo ricordarci che l’esperienza live non è riproducibile in un altro modo, che non ci sono soluzioni alternative ad essa.
Fabio Bortolussi. Il punto di forza è sicuramente l’ambiente, l’architettura e la sacralità di un posto del genere. Il festival si svolge nella piazza adiacente all’abbazia dell’VIII secolo, che come tutti gli edifici sacri di quel periodo ha una sua unicità architettonica; il fatto di vedere un concerto chiamiamolo “Indie Rock”, anche se è un termine che non si usa più, fa sì che si riesca a dare un valore musicale, artistico ed emozionale che, una volta che il pubblico lo prova, non vi può rinunciare. È la possibilità di vedere un concerto dove si è a tu per tu con l’artista, perché quando facciamo il pubblico in piedi al massimo ci sono duemila persone, l’ultima fila è a venti metri dal palco, sei praticamente lì. Poi c’è da dire che tutto il festival si svolge all’interno del borgo di Sesto al Reghena, al di fuori della piazza c’è un’area che è il retro di un palazzo storico con un giardino all’italiana; lì viene creata la lounge, un’area di decompressione prima e dopo il concerto, ad uso sia del pubblico sia degli artisti. L’anno scorso ad esempio tutti gli artisti dopo aver suonato sono venuti lì quindi c’è stata interazione con chi è venuto a vederli. L’artista stesso in pratica si sente talmente coinvolto dalla situazione che si rende disponibile. Poi ci sono installazioni artistiche, mostre, dj set… sono tutti punti di forza che fanno sì che il pubblico stia bene e si senta a proprio agio, per cui poi inevitabilmente ritorna.
E per quanto riguarda l’edizione di quest’anno? Siete soddisfatti del cartellone che avete messo insieme?
Viola Costa. Anche quest’anno ci sono dei tratti caratteristici come la trasversalità dei generi e del pubblico, è un cartellone più ricco del solito perché alla solita nutrita serie di artisti internazionali si aggiunge un numero maggiore di artisti italiani, normalmente ce ne sono uno o due, quest’anno ne abbiamo messi di più: quattro artisti per cinque serate, visto che Francesco De Gregori farà doppia data. I nomi che aspetto di più credo siano gli Interpol, che sono oltretutto in data unica in Italia e che sarà un appuntamento che richiamerà un pubblico quasi esclusivamente di loro fan. Noi di solito, data la capienza ridotta, chiamiamo anche nomi che magari sono famosissimi all’estero ma in Italia non sono conosciuti al pubblico più generalista, per cui il posto è gremito dai loro fan più accaniti, che sono quelli che a volte li seguono in giro per più date (in effetti siamo stati contattati da qualcuno che la sera prima sarà a vederli all’estero non ricordo dove e che poi verrà da noi). Il concerto più rocambolesco, quello più difficile da organizzare, è stato quello dei Dogstar, la band di Keanu Reeves, che a causa di tutti i suoi impegni cinematografici ha rimandato il tour tre volte, ma adesso finalmente ce la facciamo! Poi segnalo l’appuntamento dell’8 luglio con James Blake, un artista molto interessante che non vedo l’ora di vedere sul palco, credo che assisteremo ad un piccolo gioiello! Ma anche quello con Glen Hansard non sarà da meno: per lui sarà un ritorno, visto che aveva chiuso l’edizione del 2019 con quella che è stata l’esibizione dal vivo più bella che io ricordi da quando è nato il festival. È un artista davvero straordinario, anche umanamente, per cui non vediamo l’ora. E poi Cat Power, un’artista davvero sincera, che riassume in sé tutte quelle caratteristiche di urgenza espressiva e profondità che io reputo necessarie per venire a suonare nel nostro festival. Io normalmente non amo gli omaggi, ma lei ha da sempre un legame forte con Bob Dylan e il suo disco è davvero bello e sentito, per cui credo che sarà una bellissima serata (Cat Power proporrà il recente album dal vivo, dove ha eseguito nella sua interezza il famoso concerto di Bob Dylan alla Free Trade Hall di Manchester del 1966 NDA).
Fabio Bortolussi. Il festival nasce intorno agli Slowdive, che è il primo gruppo a cui abbiamo pensato. Negli ultimi anni, da rassegna che eravamo siamo diventati sempre più un festival, cosa che per noi è anche più fattibile: essendo un borgo, con gli spazi già costruiti e predisposti, è più produttivo creare una situazione di questo tipo. Da qualche anno quindi prendiamo un nome di punta e su questo costruiamo il programma. Quest’anno quindi abbiamo chiamato gli Slowdive, che non sono più un segreto per nessuno, sono tornati dopo tanti anni e soprattutto in quest’ultimo tour stanno facendo un sold out dopo l’altro, sarà davvero una grande soddisfazione averli da noi. La stessa sera ci saranno gli I Hate My Village, molto riconosciuti a livello nazionale, dopodiché abbiamo scelto Cosmo, uscendo in questo modo dalla nostra solita linea artistica. Si tratta di un cantautorato elettronico che rappresenta per noi una nuova forma artistica, anche un modo per spaziare di più a livello di pubblico. Poi ci sarà sempre la serata di neo classica, che negli ultimi anni tendiamo a fare: l’anno scorso c’è stata Hania Rani, quest’anno verrà Tony Ann, che è diventato famoso soprattutto attraverso i Social e ha fatto conoscere questo genere anche ai più giovani. Un’altra serata molto importante, che sarà ad ingresso gratuito, sarà quella degli A Toys Orchestra, una conferma, una band italiana molto conosciuta, e accanto a loro abbiamo messo Marta Del Grandi, un’artista emergente che sta facendo molto parlare di sé. Quella invece che mi incuriosisce di più, e di cui sono molto orgoglioso, è quella che vedrà insieme bdrmm e Jadu Heart. Sono due band inglesi, giovanissime, che si rifanno sia allo Shoegaze che al Dream Pop, fanno una musica molto ipnotica e le abbiamo volute perché vogliamo aprire alle nuove proposte, che si rifanno magari ad artisti già noti ma che hanno una loro personalità; si tratta anche di un modo per portare qualcosa di nuovo e sono sicuro che in quel contesto daranno il meglio, la qualità è alta.
Come la vedete la situazione della musica dal vivo in Italia? Io personalmente sono pessimista: mi pare che il divario tra i grandi eventi con nomi ultra mainstream, e piccole realtà come la vostra sia sempre più largo: i primi vanno immancabilmente sold out nonostante i prezzi proibitivi di biglietti; i secondi hanno continui problemi di riempimento.
Viola Costa. È un discorso estremamente complesso. Gli anni della pandemia hanno sviluppato l’abitudine a restare a casa e a sostituire i live con esperienze alternative fruibili da casa, per cui magari abbiamo comprato tutti televisori giganteschi e mega impianti stereo, abituandoci così ad un altro modo di passare il tempo. Credo che questo, inevitabilmente, sia andato a detrimento di tutte quelle forme d’arte per cui il pubblico non è mosso da una passione viscerale. Quello che succede è che si riempiono quegli eventi per i quali chi partecipa è mosso da un’enorme passione. Laddove la spinta è minore, oppure bisognerebbe essere mossi soprattutto dalla curiosità, allora non funziona, ci sono delle alternative che vincono. Questa credo sia una delle spiegazioni più plausibili, soprattutto guardando anche altri generi (io lavoro anche con il teatro in prosa e la situazione è quella). C’è però anche un motivo legato agli artisti e agli addetti ai lavori: in pandemia si è lavorato tantissimo, soprattutto d’estate, ricordo ritmi quasi disumani, e tutti noi ci consolavamo col fatto che innanzitutto finalmente si lavorava, e poi dicendoci che dopotutto si trattava di un anno eccezionale, che poi si sarebbe tornati alla normalità. Invece quello che è successo è che l’intera industria musicale ha capito che certi ritmi si potevano reggere anche normalmente e quindi tutto l’anno è diventato così. Nel primo anno di pandemia gli artisti si sono ridotti il cachet, anche perché le capienze erano ridotte, ma i costi erano comunque molto alti. È da lì che i prezzi sono aumentati a dismisura però all’epoca c’era una tale fame di eventi che la gente era comunque disposta a spendere. Da lì però non si è più tornati indietro: abbiamo capito che gli italiani possono spendere cifre assurdi per i biglietti, quindi chiediamogliele, tanto più che adesso sono aumentate anche le capienze, quindi si può capitalizzare di più. È un discorso che parte a monte, sono io stessa che vedo i cachet degli artisti, non è che siamo noi ad aumentare i costi per sadismo, è che ormai è tutto più caro, è un discorso che interessa tutta la filiera. Ecco, tutta questa situazione fa sì che la gente scelga: spende tanto per ciò per cui è più motivata e risparmia su tutto il resto.
Fabio Bortolussi. Sicuramente i costi negli ultimi anni hanno influito molto: le cose piccole, per dire, non sono più convenienti come una volta. Prima si poteva osare di più perché i costi erano più bassi e c’era più margine di rischio, adesso è molto più difficile. I grandi eventi sono di tutto rispetto, per carità, però sono scontati. Noi abbiamo chiamato bdrmm e Jadu Heart anche per cercare di smuovere qualcosa, per uscire dai soliti nomi; poi per carità, non saremo noi che saremo in grado di smuovere la musica a livello nazionale però un piccolo segnale vogliamo darlo. Poi è chiaro che al grande evento piace vincere facile, ma non ci vedo niente né di nuovo né di originale, sono nomi che bene o male vengono sempre, se non quest’anno, l’anno dopo, se non in quella città, in quell’altra. Poi per carità, è giusto che la gente possa scegliere, non ho niente da obiettare, però oggi se voglio andare ad un concerto preferisco andare da qualcuno che non vedo da un’altra parte. Metto in gioco una curiosità che probabilmente al grosso del pubblico manca.
Quindi secondo te è un problema di educazione? Io personalmente la penso così…
Fabio Bortolussi. È un problema di pubblico, però a mio parere è dovuto ad un bel po’ di inquinamento mediatico. Prendi la tv, ad esempio: non forma, non propone; se uno, anche non per forza un giovane, volesse scoprire qualche cosa che non conosce, non ne avrebbe la possibilità. Certo, se non sei curioso di tuo, non andrai mai ad ascoltare qualcosa che non ascolti, però è altrettanto vero che non ci sono i mezzi, anche volendo, per poterlo fare. All’estero qualsiasi gruppo tu organizzi, funziona, ma evidentemente c’è un panorama del tutto diverso. Marta del Grandi stessa funziona più di là, piuttosto che da noi. Manca la curiosità e quindi anche il promoter, che lo fa per lavoro, ragiona con una logica commerciale, non mi sento di fargliene una colpa. Un grande festival ha dei costi spropositati, per incassare bisogna offrire un prodotto che possa richiamare gente, altrimenti incassi poco e la volta dopo non lo fai più! Dovremmo cercare di instillare un po’ di curiosità alle generazioni più giovani, magari usando gli stessi canali che usano loro: Tony Ann, come ti ho detto, sta usando i social e sta funzionando, speriamo che non rimanga solo un fenomeno estemporaneo e che possa invece rappresentare l’inizio di un nuovo trend. Poi sai, la società negli ultimi anni è cambiata tantissimo, oggi è tutto un mordi e fuggi, un usa e getta, è anche difficile lasciare sedimentare i gusti, i fenomeni, in precedenza la gente era più attaccata ai propri interessi, li coltivava di più, li portava avanti.
Da ultimo, vi chiederei se c’è qualche artista che rappresenta un po’ il vostro sogno proibito e che sperate prima o poi di riuscire a portare.
Viola Costa. Ce ne sarebbero tanti, però ti cito quelli che negli scorsi anni sono stati alla portata del festival e che ci sono sfuggiti per un soffio, adesso probabilmente sono oltre le nostre possibilità; ma io amo le sfide, per cui non si sa mai! Il primo è Nick Cave, che è sempre stato al limite ma che nei nostri primi anni avremmo anche potuto fare. Poi c’è Pj Harvey, che non è a quei livelli ma che credo sia molto difficile da realizzare, a meno che non scatti l’amore per il luogo (ha suonato in passato con musicisti italiani che amano molto il festival, spero sempre che qualcuno gliene parli!). Il terzo è Sufjan Stevens, che è più piccolo e che quindi sarebbe più alla nostra portata, anche se non va in tour da un po’ e adesso non sta neanche bene di salute.
Fabio Bortolussi. Per noi il desiderio sarebbe quello di portare delle icone: Pj Harvey, Thom Yorke, che rappresentano generi che abbiamo coltivato per tanti anni. Un’artista che mi incuriosirebbe portare in un ambiente come il nostro è Fever Ray: creerebbe un contrasto interessante tra la sua proposta e la location, sarebbe davvero interessante vederne il risultato.