Come al solito, nelle interviste scompaio in fretta, chè già ci sono troppo nelle domande.
Dico solo che andavo appresso ad Alessio da anni, ma che, per il solito e strano gioco di circostanze e destini per cui nulla accade mai, davvero, per caso, ci troviamo a scambiare due chiacchiere a proposito del mio suo disco preferito.
Runnegghiè ha dentro la violenza che vorrei sempre trovare in quello che ascolto, leggo, vedo, e che vorrei potesse appartenere anche a tutto quello che viene da me. È un disco definitivo, incandescente, oscuro eppure bruciante, viscerale e muscolare.
Ecco, tutta la nostra chiacchierata parla (molto meglio di come possa aver fatto io) di tutto questo, con tutto quello che ne consegue: blues, dolore, appartenenza.
Come sempre, buona lettura se vi andrà.
Speriamo a presto.
Allora, io ho sempre una domanda a rompighiaccio, che faccio come inizio dell'intervista, che è: qual è, se c'è, secondo te ovviamente, il rapporto tra la forma canzone e la letteratura? Sono due cose collegate o proprio non si incontrano completamente per la strada?
La forma canzone e la letteratura... la forma canzone io la vedo come una forma di letteratura, quindi, in qualche modo, una specie di sottoinsieme. La cosa in comune che vedo principalmente è la creazione di un mondo: la canzone lo fa nei tre minuti, dieci, sei, cinque che sono, la letteratura, il libro, il romanzo, insomma, lo fa nel corso del romanzo.
In uno spazio più dilatato…
Sì, in uno spazio più dilatato, ecco. Probabilmente, poi, il romanzo utilizza la narrazione e le parole, laddove la canzone va anche per vie più sottili, in qualche modo si infila nelle orecchie, anche se tu non vuoi.
Runegghiè io l'ho trovato il tuo disco più estremo, quello in cui hai spinto più sull'acceleratore di una certa rotta. Nel suo percorso di creazione c’è stato una specie di “effetto collaterale” della ricerca che avete fatto con il collettivo Lero Lero?
Guarda, io non so cosa intendi tu, però c'è stato un effetto collaterale, effettivamente. Cioè il fatto che, incontrando questa materia incandescente, rappresentata da questi documenti sonori (i canti popolari di lavoro, rituali, eccetera eccetera) emergono domande fondamentali su quello che sei tu nel mondo, e, ancora meglio, su quello che sei tu nel mondo oggi. Oltre a tutte le domande inerenti al perché tutta questa musica, questo modo di esistere nel mondo sia scomparso, e quando. Quando capisci che è successo da poco, tenti di capire perché, e per quanto è durato, soprattutto. Quindi, insomma, mette in discussione molte cose, e le mette in discussione dal punto di vista esistenziale, ma anche dal punto di vista artistico: non sei più lo stesso dopo che incontri in un certo modo una certa materia.
Di conseguenza è anche un po' cambiato il tuo rapporto con il dialetto e con lo scrivere in dialetto?
Non saprei questo, sai? Nel senso che per me la scrittura, soprattutto delle canzoni, forse in realtà in generale, ma dico della canzone, che, essendo proprio una sorta di componimento poetico, ha le sue misure certe (che stabilisci anche tu, insomma, è roba creativa) però avendo la sua metrica, la sua struttura che più o meno è quella, i fa ragionare più in modo poetico, e quindi in modo magico, e quindi la scrittura vissuta come un tramite per comunicare con qualcosa che non si vede, diciamo. Qualcosa che poi non si sa che cos'è, potrebbero essere quelli che alcuni definiscono spiriti o potrebbe essere qualsiasi cosa, nelle varie culture si declina in qualsiasi modo; sta di fatto che tutti quelli che scrivono canzoni o poesie eccetera eccetera, dicono la stessa cosa, più o meno, ossia che in un certo punto c'è una voce che ti viene a parlare. Poi, se ci pensiamo, la genesi della parola poetica è la genesi della parola sacra: la poesia e la magia, all’ inizio sono unite. Poi la parola della divinità viene scissa, viene laicizzata, viene secolarizzata nella parola poetica, ma inizialmente sono esattamente la stessa cosa, ed è una parola che cambia, che una volta che è detta non può più tornare al mittente ed esercita un potere.
Faccio un passo indietro, torno un attimo a Maharia, ma lo uso quasi come punto di partenza: si può dire che siano state quasi due facce della stessa medaglia, che quindi Runeghie esiste perché è esistito Maharia, come se fosse una specie di rappresentazione di giorno e notte?
Tu sei molto acuto nelle osservazioni, perché secondo me non si vede questa cosa, ma tu sei riuscito a coglierla, e mi inquieta parlare con te (ride). No, allora, io quando ho fatto Maharia volevo già fare un disco così (come Runneghiè, nda), ma non avevo gli strumenti per farlo. Nel frattempo ho scritto delle canzoni, e sono venute fuori in quel modo lì, per cui ho tenuto fede a quella ispirazione e le ho porte al pubblico in quel modo. Però io già da Nivuru (il suo secondo album, nda) appena ho finito di fare Sfardo (il suo primo album, nda), avevo l'intenzione di fare quella cosa lì. Secondo me Maharia poteva essere un disco anche più scuro, l'ho capito dopo, e quindi poi ci sono voluti anni per studiare gli strumenti che mi servivano per fare questo disco, e ancora secondo me qualcosina da studiare ce l'ho, perché mi piacerebbe ancora di più esplorare, andare ancora di più sotto pelle, dentro questa matrice incredibile che è il nostro folclore.
Nel Ted che hai fatto a Vittoria, se non ricordo male, parlavi anche di riappropriarci del “nostro” blues. Il blues ci appartiene perché, in qualche modo, ha a che fare con una dimensione di un “dolore terrestre che sta nelle cose”, per citare Carlo Levi?
Esatto, sì, poi lo chiamiamo blues, gli andalusi lo chiamano duende, diciamo che si utilizza una parola che tutti possono capire per dire qualcosa. Chiaramente il blues è quello americano, noi però abbiamo un nostro blues, cioè quello stesso principio, che magari non è stato codificato in una definizione, non è stato "brandizzato", non è stato soprattutto declinato, prima ancora che brandizzato, non abbastanza secondo il mio parere, che è rimasto lì, un po' inchiodato a questi archivi, che per fortuna esistono e che ancora tengono traccia di questo nostro passato, che poi in realtà è anche presente: sono oggetti veramente incandescenti, appena li senti sono subito presenti.
Quindi l'ultimo e chiudo, la vitalità bruciante che c'è in Runeghe, perchè a me ha trasmesso questo, pur nel suo essere cupo (a me poi piacciono le cose cupe, quindi mi sono trovato a sguazzarci), viene fuori dall'aver maneggiato questa materia così calda?
Sì sì sì, c'era anche la voglia di essere meno compiacenti nei confronti del pubblico. Molte canzoni le ho scritte prima di incontrare gli archivi, alcune le ho scritte dopo, ed esattamente nel mezzo succede questa cosa. Chiaramente il disco parla molto non solo con le parole, ma anche con i suoni, e i suoni invece sono totalmente figli di quella ricerca lì. Anzi ti dirò di più: sono arrivato ad ascoltare gli archivi proprio perché ho iniziato a fare prima il disco: ho detto no, qua (nuovamente) mi mancano le informazioni per farlo come voglio fare io. Tempo prima, qualcuno mi aveva passato il link di questo archivio Rai. Al che ero con Fabio e con Aki Spadaro, e dissi: "picciotti sapete che ho questo link, ce lo possiamo sentire se volete". Allora lì ci siamo messi ad ascoltare roba, e abbiamo detto: "minchia, è esattamente questa la zona in cui dobbiamo cercare" e quindi ci siamo messi a sviscerarlo, ognuno con i propri mezzi, con la propria voglia, con le proprie possibilità. Nel frattempo si è creato il collettivo Lero Lero, poi ci sono stati un paio d'anni di ricerca veramente massiccia su quella materia, però nel frattempo continuavamo a fare il disco, ed è venuto così proprio per questo.
Photo Credits: Paolo Raeli