Cerca

logo
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
15/11/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Cesare Basile
È il rumore di un lutto costante, quello che Cesare Basile sceglie come sfondo sonoro per raccontare il genocidio del popolo palestinese. Un rumore cieco, di crolli che ti lasciano senza fiato. Qua sotto si parla di questo, della ferita atavica della spartenza, ma anche di poeti, resistenze e del riuscire ad abitare i dolori degli altri, di quella cosa che forse si chiama pietà e che spesso basterebbe fosse umanità.

Andavo appresso a questa intervista da almeno cinque anni, da quando uscì Cummeddia, forse il disco con cui mi innamorai definitivamente della musica di Cesare Basile.

E c’è, dietro, un motivo molto semplice: è una musica che è una porta spalancata su un dolore antico, il “dolore terrestre che sta per sempre nelle cose” di Carlo Levi. È l’odore persistente di una sconfitta vecchia come il mondo, che certa umanità si porta sotto la pelle, come una ferita non curata.

Non è fatalismo in salsa sicula, è molto di più: è essere, sistematicamente, calpestati, dimenticati, offesi, avviliti. E, sistematicamente, continuare ad alzarsi, con la ferocia e la dignità di chi, nonostante tutto, continua a resistere.

Da lì, diventa tutto una questione di urgenze, di quelle che ti bruciano la gola e la bocca dello stomaco come un conato di vomito. E non puoi fare altro che seguirle, e dargli tutta la voce che hai.

Ci è rimasto poco, quasi niente: “Abbiamo una patria di parole”. E allora tu “Parla, parla affinché io possa appoggiare il mio cammino su una pietra di pietra”.

“Abbiamo una patria di parole. Parla, parla così, forse, vedrò una fine di questo viaggio”.

 

Allora, la domanda con cui comincio sempre le mie interviste, una specie di rompighiaccio: qual è, per te, se c'è ovviamente, il rapporto tra la forma canzone e la poesia? Sono delle cose che camminano sullo stesso binario, sono proprio due cose completamente diverse, o si incontrano in qualche punto?

Praticamente tu parti da una delle questioni più controverse del XX secolo, e ora anche del XXI secolo, basta vedere come hanno reagito i puristi al Nobel a Dylan, affrettandosi a dire che no, la canzone è la canzone, la poesia è la poesia.

Allora, indubbiamente ci sono delle differenze, che probabilmente sono soltanto stilistiche, ma se andiamo all'osso della questione (per rimanere in tema di ossa, visto che ormai con te ne parliamo sempre) dicevo, l'osso della questione è che sia la canzone che la poesia cercano di intuire qualcosa e, partendo da quell'intuizione, immaginarne un'altra. E in definitiva creare mondi. Il poeta è un creatore di mondi, esattamente come chi scrive canzoni.

E credo che chi scriva canzoni sia un poeta. Poi chiaramente possiamo parlare della qualità, della profondità delle opere, ma non come differenza fra la poesia e la canzone: all'interno delle canzoni possiamo parlare della profondità di una canzone, come all’interno delle poesie possiamo parlare della profondità di una poesia. Per mia natura non riesco mai a creare separazioni nette fra le cose, credo anche che dal punto di vista dell'artista creare separazioni nette sia porsi un limite, per cui assolutamente non credo che le due cose collidano, o addirittura possano muoversi su binari diversi.

Poi sai, c'è una cosa che si dice sempre, la poesia nasce con la musica. Poi sicuramente si evolve, ma anche la musica, anche le canzoni si evolvono. Siamo di fronte a dei corpi che, per essere efficaci nella lettura della realtà e nell'immaginare un'altra realtà, devono mutare continuamente.

 

Per scrivere Saracena sei partito dal “Puoi scrivere solamente la storia del tuo esilio” di Mahmoud Darwish. E però, sentendo il disco, siamo di fronte ad una una sorta di “epica universale” dell'esilio: nel raccontare un esilio solo, sei riuscito a raccontarne tantissimi altri.

Perché l'intuizione iniziale era quella, capire nell'esilio, nella diaspora di un popolo, cosa ritroviamo di noi stessi. E, prima ancora dei siciliani, costretti “per storia”, ecco, a lasciare la propria terra, ho immaginato una fra le prime popolazioni che fu costretta a lasciare la Sicilia, che erano gli arabi, appunto. Mi sono ricordato delle splendide poesie che i poeti arabi di Sicilia scrissero trattando il tema dell'esilio quando, dopo la vittoria dei normanni, molti di loro furono costretti a lasciare l'Isola. E ho pensato a come erano legati a questo posto, anche perché gli arabi di Sicilia erano ormai arabi da generazioni, non erano più degli invasori, erano naturalizzati qui, questa era diventata casa loro. E, tornando all'inizio della tua domanda, un esilio può contenere tutti gli altri? Sì, perché è un destino, e nel destino le vittime si ritrovano.

 

Come se fosse un'unica ferita…

Sì, ma forse, se ci pensi, il punto è, come dire “stare” nel dramma di qualcun altro: se noi questo dramma lo partecipiamo, ne diventiamo parte, se si instaura questo senso di condivisione del dolore, questo rapporto di pietà (nel senso più alto del termine) noi facciamo parte di quel dramma.

 

Allora, già dal primo ascolto, Saracena, mi è sembrato subito un disco che viaggiava su due binari paralleli di tensione verso una certa estremità, verso un certo essere estremi, tanto nella musica quanto anche nel testo. Cioè, è come davvero se fossi tornato all'osso delle cose, e l'urgenza che racconti di aver avuto nella registrazione si vede perfettamente nel fatto che i testi siano veramente essenziali, arrivano dritti al punto.

Sai cosa? Non c'era il tempo di pensare a questo lavoro. Io non ho avuto il tempo di pensare a questo lavoro, e forse non ho voluto avere il tempo di farlo. Se avessi avuto tempo di pensare a questo lavoro, non sarebbe venuto fuori Saracena così come lo conosciamo.

Saracena doveva servire un'urgenza, che forse faceva parte di quel discorso di cui parlavamo prima, di quella pietà, di sentire questo sommovimento di fronte ai fatti che stavano, e che stanno ancora, accadendo. Io però su questi fatti non ci volevo ragionare troppo, perché sennò li avrei fatti diventare un manufatto troppo lavorato, che a volte può essere bello, ma altre volte può mancare l'obiettivo, nel senso che può finire per distrarre dal cuore della cosa.

E allora ho pensato che per raggiungere il cuore di quella cosa che mi stava mangiando l'anima dovevo fare tutto in fretta, per non fermarmi sulle cose, per vedere come le cose arrivavano al mio cuore e alla mia testa. E così anche le parole, i testi: non ci sono molte parole, in questo disco, è un disco che dura 27 minuti. Però è stata forse la prima volta, da quando faccio questo benedetto lavoro, da quando scrivo canzoni, in cui tutto è arrivato a una conclusione che non poteva essere altra, non dovevo aggiungere niente, non dovevo aggiungere una parola, non dovevo aggiungere un suono.

Per cui da questo punto di vista, anche lì, io non lo so se l'ho scelta realmente questa procedura: questa cosa è successa, e man mano che andava avanti sono arrivato, a distanza di più o meno due settimane dall'inizio, alla fine, ma io lo sapevo che era arrivata la fine. Poi, insomma, sai meglio di me che un musicista può scrivere una canzone per tutta la vita, tornarci sempre, continuarla, allargarla, arrangiarla, poi la registri, poi la rimischi, potresti passare tutta la vita su un solo verso, direbbe un poeta, senza esserne mai convinto. Però è anche vero che una volta avevo letto su un trattato di scrittura che l'autrice, di cui non ricordo il nome (l’ho letto veramente tanto tempo fa) paragonava la propria pratica dello scrivere al lavoro del samurai con la spada, che ogni tanto doveva tagliare nettamente la questione, porre un fine alla cosa.

Poi ripeto, in questo caso non ne ho avuto bisogno perché, naturalmente, sulla superficie è affiorata quella parola, quella sensazione che diceva “ok, siamo arrivati”.

 

Rimango sul discorso dell'estremità: Nivura Spoken sarebbe stato un passaggio intermedio come in termini di timbri sonori?

No. Guarda, Nivura Spoken tra l'altro ti posso anticipare che uscirà a gennaio, fortunatamente, sempre per Viceversa, perché lo abbiamo riascoltato con Enzo Velotto e ci siamo detti che è un peccato non farlo uscire. È un lavoro che probabilmente oggi rifarei in maniera completamente diversa, è stato un lavoro fatto “in cattività”, perché era durante il Covid. E forse è stata anche una maniera di cominciare ad approcciarmi al lavoro con l'elettronica, con strumenti non tradizionali, non quelli che ero uso maneggiare.

Anche quello è stato un lavoro fatto da solo, però quello è stato un lavoro che non era frutto d'urgenza, era un lavoro che all'inizio mi serviva un po' per giocare, un po' per capire cosa avevo fra le mani, maneggiando, appunto, macchine nuove, maneggiando suoni nuovi. È anche una maniera nuova di comporre che è diversa dalla sola forma canzone. Per cui no, non è un tramite, non è un punto di passaggio: credo che sia una storia a parte, una deriva, come tutte le derive che io auguro ogni musicista di avere sempre.

 

Chiarissimo. Allora, una delle cose che mi è piaciuta di più è stata quel “Non cummattu e mancu preju, addifennu lu disiu di li poeti” che (non so quanto correttamente) mi ha riportato a “Parangelia”, quando canti che “Scrivere poesie è un vizio d'Odissea, di Grecia e d'Anarchia”. Fondamentalmente, difendere il desiderio di un poeta, così come difendere l’anarchia, nasce come una forma di resistenza?

Assolutamente sì. Anche perché difendere il desiderio di un poeta è una cosa praticamente impossibile. E la resistenza è sempre una cosa impossibile, è sempre una lotta sovrumana.

Il desiderio dei poeti è, innanzitutto, qualcosa che non possiamo articolare, però sappiamo che esiste, che è urgente e che probabilmente ha sempre salvato il mondo. Non so perché ti sto dicendo questa cosa, non l'ho mai pensata, ma in questo momento me ne sto convincendo.

 

È quasi un investimento, cioè io difendo qualche cosa sulla fiducia.

Io difendo quella cosa perché so che quella cosa è la ricchezza mia, della terra in cui vivo e della terra da cui sono stato cacciato. Quella, tra l'altro, è una frase di Mahmoud Darwish, che io chiaramente poi ho declinato in maniera leggermente diversa. Esattamente come “Paranghelia” era il frutto della mia lettura delle poesie di Caterina Gogou. E poi, dopo averle rimasticate, le ho tradotte in quella canzone, come se avessi rimasticato tutte le poesie della Gogou per scrivere una sola canzone. In questo caso, Darwish, quando parla del desiderio dei poeti si rende perfettamente conto che nel desiderio dei poeti c'è la memoria del suo popolo, di un popolo che è stato cacciato dalle proprie casse. Ed è sempre l’esilio di cui si parlava.

 

E invece a proposito di “U’ Jornu do Signuri”, nella tua discografia c’è questo elemento quasi sacro che ritorna spesso. In questo caso, per certi versi, mi sembra tu sia andato un po' verso il racconto che De Andrè faceva di Gesù Cristo nella “Buona Novella”...

Sì, perché quel racconto di Cristo è una lettura comune a tanti artisti. Nel mio caso, quella canzone nasce, in effetti, dall'arbitrio che si è fatto prendendo come scusa le parole dei testi sacri, in questo caso della Bibbia, dell'Antico Testamento, ma anche del Nuovo. È il famoso “Dio è con noi”, che identifica sempre i carnefici, dai nazisti al governo israeliano in questo momento. Questo arrogarsi il diritto di essere gli unici cui Dio ha dato il potere di restare da soli sulla Terra, perché questo è il discorso. Chi compie violenza nei confronti del proprio prossimo, di fatto, pensa di poter restare da solo sulla Terra. E pensa che questo potere gli è venuto direttamente dal Dio. Allora, come dire, volevo ribadire che il Cristo che io prego ogni notte quando vado a dormire, perché lo faccio ogni notte, e non saprei dirti bene perché, se per paura, per fede o per speranza, ecco, questo Cristo, con loro, non ha niente a che vedere. Resterà sempre il Cristo degli ultimi, perché è il Cristo che si è fatto ultimo.

 

Sono assolutamente d'accordo. Secondo te per noi siciliani rimarrà una “memoria muscolare” della Spartenza? Voglio dire, anche quando ci sarà un futuro più florido, che magari noi non saremmo neanche in grado, non solo di raccontare, ma anche di vedere, ci sarà qualcuno che si ricorderà di quello che siamo stati?

Io credo che esista una memoria genetica, un po’ come sosteneva Jung. Ecco, queste cose possono scomparire, ma noi sappiamo che non sono scomparse, sono state sepolte nell’inconscio, ma prima o poi tornano fuori. Il problema è capire cosa generano quando tornano fuori, l'incognita è sempre quella. Però non credo che si possa cancellare dalla memoria di un popolo il dolore della Spartenza.

 

Per chiudere, siamo partiti dalle ossa e torniamo alle ossa, ad ogni nuovo album, più diventano “minimali” i tuoi timbri, più c'è quasi un ritorno al blues.

C’è un ritorno perché non c’è mai stato un allontanamento! (ride)

 

Ok, hai già risposto praticamente.

Ma perché sai, il blues… posto che, anche lì, il blues, come la poesia o come il desiderio dei poeti, non sappiamo come descriverlo. Però è quella roba a cui non ti puoi sottrarre, c’è sempre uno spirito che ti costringe a dialogare con lui. Allora, una delle cose più belle, secondo me, del blues, che mi ha colpito molto quando ho cominciato un po' a studiarlo, forse più letterariamente che non musicalmente, non credo che si possa studiare il blues musicalmente, mentre a livello letterario sì, è che c'è sempre questa frase, spesso come un rituale, che apre molti blues, almeno quelli antichi: “woke up this morning, blues all around”.

Ora, i blues non erano altro che degli spiritelli, erano come dei fantasmi. E ho l'idea di questo uomo che si sveglia al mattino e ha la sua stanza da letto piena di questi spiritelli che lo stanno guardando e gli stanno chiedendo che cosa? Di parlare, e di parlare di lui. E per cui, forse, è anche questo il desiderio dei poeti, no? Come il blues.

 

Finisce per essere anche quella una condizione di urgenza.

È una condizione di malessere, non c'è dove cazzo andare! (ride)