Padre cileno, madre siciliana ma con profondi legami con la cultura indiana, Esteban Ganesh Dell’Orto vive a Milano e, più che un musicista, preferisce considerarsi un “comunicatore”. In effetti scrivere canzoni e suonarle dal vivo è solo una delle sue passioni, all’interno di una personalità poliedrica nella quale convivono l’arte, il calcio e lo yoga.
Nuvola, il suo EP d’esordio, mi aveva colpito per la sua sincerità, i brani ottimamente scritti, l’esplorazione di diversi stili e soluzioni di arrangiamento, ma un’impronta generale che andava a richiamare fortemente il cosiddetto Indie degli anni Zero. Il tutto con una leggerezza che è semplicemente il suo modo privilegiato per declinare in musica uno sguardo profondo e riflessivo sulla vita.
L’uscita in queste settimane di Nuvola + Sole, versione riveduta e ampliata del debutto, che arriva così ad assumere la forma di un vero e proprio album, mi ha dato la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Esteban. Abbiamo parlato di musica, ovviamente, ma senza tralasciare quegli aspetti che lo rendono per certi versi una personalità unica nella scena italiana odierna.
Partiamo da Nuvola + Sole: che cos’è che abbiamo davanti, esattamente? Si tratta di due EP, col secondo che è uscito in un secondo momento, oppure di un disco unico che solo ora trova il suo completamento?
La mia idea iniziale era quella di fare un album completo. In seguito, nelle varie riflessioni che abbiamo fatto con l’etichetta e con Gianluca Sala, che è la figura che più mi ha seguito in questi tre anni di percorso, abbiamo pensato che non sarebbe stato male fare un EP, anche per un discorso di uscite, perché sarebbe stato più facile per costruirsi un pubblico. Dopo aver fatto uscire Nuvola avevamo altre canzoni da parte, mentre altre sono state create durante il percorso, insieme ad altri musicisti che mi hanno dato una mano. In conclusione, non è stato nient’altro che un album unico che si è in seguito strutturato in due fasi distinte.
Sbaglio o le canzoni contenute in Sole appaiono maggiormente più aperte, positive?
C’è senza dubbio una luminosità maggiore, laddove i brani precedenti erano più dei ricordi, quindi in un certo qual modo anche malinconici. Questi qui nuovi sono pezzi più “lanciati”, per così dire. “Luz de Vela” o “Nano Cilao” sono brani che raccontano il periodo della mia infanzia, che sviluppano temi importanti su cui riflettere; quelli di Sole sono senza dubbio più allegri. È stata una divisione studiata a tavolino, voluta.
Mi pare che due canzoni chiave per capire questa seconda parte siano “Milano abbracciami” e “Ipocondriaco”…
In “Milano abbracciami” la fortuna di questa modernità nei suoni la devo ad Andrea Cavallaro (in arte 12anni) che è l’artista con cui ho scritto il pezzo e gli ha sicuramente dato una chiave di volta più moderna. Abbiamo invece scelto di partire con “Ipocondriaco” per due ragioni: la prima è una questione di produzione, nel senso che dei tre inediti che c’erano in questo disco (“Nina”, “Ipocondriaco”, “Abat-Jour”), il primo era un po’ troppo cantautorale, iniziare con quello avrebbe spiazzato sul senso generale del disco; la stessa cosa per “Abat-Jour”, ma nel senso che va in una direzione molto rock. “Ipocondriaco” invece dà un’immagine esemplare della mia vita, della mia interiorità. Questo disco è tutto un insieme di ricordi, sensazioni, incontri della mia vita, della mia infanzia, e credo che questa parola sia essenziale per inquadrare il tutto…
È molto bella anche “Abat-Jour” che, anzi, credo sia il mio pezzo preferito dell’album. È interessante questa idea di utilizzare un oggetto e di metterlo al centro di una dichiarazione d’amore. Tra l’altro si può ritrovare tutta una poetica degli oggetti, nelle tue canzoni…
È particolare, sì. Nasce dall’idea di un mio amico, Santiago Rivas, un altro musicista con cui ho collaborato in questi mesi. Lui aveva già buttato giù questa idea tempo fa, poi ci siamo incontrati e abbiamo costruito questa canzone insieme. Questo sfruttare gli oggetti, le personificazioni di varie cose, così come avevo fatto anche col ragù in “Nano Cilao”, ha funzionato benissimo nella nostra scrittura. Veniamo da due mondi diversi ma ci siamo trovati molto bene. Sono d’accordo che sia un pezzo molto forte, è quello che sta andando meglio ed è stato anche un modo per mettermi alla prova su sonorità un po’ più rock, un po’ più dure, in un certo senso; sonorità che peraltro erano già parte della mia musica interiore ma non delle canzoni che avevo tirato fuori.
In “CBD” invece c’è l’unico featuring, in questo caso con Matilde. Me ne parli?
Quello con Matilde è stato un incontro molto bello, legato alla mia etichetta, alle persone con cui ho collaborato finora. È una ragazza romana che come me ha la passione per la musica e per andare in giro con la sua chitarra a scrivere e a cantare, anche in spiaggia, attorno ad un falò. Abbiamo un’immagine molto simile della musica e dei musicisti, e poi entrambi amiamo tantissimo questo genere. Da lì è nata questa canzone che ho scritto con un altro mio amico e collega musicista, Francesco Belluzzi. Abbiamo cercato una voce femminile che potesse equilibrarsi bene con la mia, e lei era assolutamente una cantante molto valida, con la quale abbiamo anche deciso di continuare il percorso.
Tu hai origini cilene ma anche forti legami con l’India, un background culturale non proprio usuale. Immagino che per te sia un grande vantaggio…
In un mondo come quello di oggi, vario e pieno di tutto e di più, credo che sia una caratteristica fondamentale per stare al passo con i tempi, per avere uno sguardo interculturale. La fortuna di avere questi due genitori, un padre cileno e una madre siciliana ma con grandi influenze legate al mondo orientale e soprattutto allo yoga, alla spiritualità, mi hanno costruito un’identità culturale diversa dalla solita realtà italiana, che non critico ma che non mi appartiene. E questo, anche dal punto di vista musicale, mi ha aperto ad incontri con realtà particolari, come ad esempio il Sitar, oppure Julio Iglesias e Juan Luis Guerra, che sono due cantanti molto importanti in Sudamerica. I temi che ho poi sviluppato per esempio in “Bandierine tibetane” o in “Luz De Vela” e “Nano Cilao”, provengono senza dubbio dal mio rapporto con queste sonorità.
Torni mai in Cile?
Siamo stabili qui a Milano, sicuramente frequento di più la Sicilia. In Cile sono stato alcune volte, le prime quando ero piccolo per cui mi ricordo poco, le ultime nella mia adolescenza. Sono un po’ di anni che non torno ma comunque gran parte della famiglia è lì, ho tanti zii, cugini e nipoti per cui, nonostante la lontananza e la poca frequenza, è una realtà che sento interiormente molto vicina.
E invece di Milano cosa dici? Ultimamente è balzata alle attenzioni della cronaca la questione degli affitti e del caro vita in generale, l’impressione è che stia sempre di più diventando una città dove è difficile vivere…
Milano è assolutamente la mia città, l’ho vissuta da quando sono bambino e nonostante sia nato a Palermo, che è una realtà culturalmente molto distante, Milano la sento mia da tutti i punti di vista. È una città molto faticosa: la frenesia, la fretta, la dinamicità che c’è mi schiaccia e spesso mi appesantisce. Però Milano è un posto incredibile, soprattutto per quello che faccio: ho un percorso di studio e lavoro legato alla comunicazione e alla didattica dell’arte e questo posto è perfetto, mi sta dando tante possibilità per costruirmi un futuro in quest’ambito. Per cui, a parte il fatto che costa troppo, è fantastica (ride NDA)!
Nella tua biografia si legge che, oltre a studiare arte, ti occupi anche di calcio e di yoga: come fai a tenere insieme mondi così diversi?
È una caratteristica che ho preso dai miei genitori, soprattutto da mio padre, quella di essere focalizzato su più cose allo stesso momento, la volontà di sapersi raccontare in più ambiti. Cultura, musica, calcio e yoga per me sono legati assieme dalla dimensione della parola, come unica chiave di volta. Io ho sempre avuto la fortuna, la bravura, il vantaggio di saper comunicare molto bene, per cui da lì ho sempre costruito il mio vivere: dal mio percorso in Accademia a Brera, dove studio come si struttura il rapporto tra parola e arte, e nei miei ambiti lavorativi: faccio l’educatore sportivo e l’insegnante di yoga. Sono due ambiti molto differenti, anche dal punto di vista spirituale, ma nonostante questo riesco a farli combaciare.
In effetti hai più volte ribadito che preferisci molto di più definirti un comunicatore piuttosto che un musicista…
È perché mi disturba tantissimo la semplicità con cui qualcuno si definisce musicista. Lo dico non per fare il finto umile ma perché constato come sempre più spesso questa parola venga utilizzata a sproposito. Da me stesso pretendo il massimo, per cui per arrivare a definirmi davvero musicista devo avere raggiunto certi traguardi. Invece ai miei colleghi, siccome oggi vogliono tutti fare i cantanti, sembra che sia un mondo troppo facile, troppo omologato. È bello che tutti possano ciò che amano, ma arrivare a definirsi qualunque cosa così alla leggera mi sembra troppo facile, non voglio cadere in questo tranello.
Come stanno insieme il calcio e lo yoga?
Dirò una cosa banale, forse: sono tenute assieme dalla fede. Non sono credente, ho avuto un retaggio dove non mi è stata trasmessa la religione cristiana, però sono una persona molto spirituale e per me lo yoga è spiritualità, collegamento con la propria profondità e riflessione interiore. La stessa cosa per il calcio, per un motivo profondamente opposto, vale a dire quello dello sfogo, delle sensazioni interiori. Normalmente trascorro tutta la mia giornata tra l’università, i miei lavori, le realtà di casa, e poi arrivano quelle due-tre partite alla settimana dove spengo il cervello, guardo la mia Inter e lì mi immergo in una realtà totalmente di pancia, spesso anche scadendo in atteggiamenti volgari come parolacce, insulti… divento un tifoso qualunque, insomma (risate NDA)!
Ti capisco benissimo, purtroppo o per fortuna…
Sono due realtà che si collegano dal punto di vista empatico: lo yoga è quella cosa che mi serve per riequilibrarmi, resettarmi, entrare in contatto con me stesso, il calcio è quella valvola di sfogo che utilizzo quando ci sono delle emozioni e delle sensazioni che ho bisogno di tirare fuori, che mi fanno star male, che mi creano rabbia. Lì, come una bella sauna o come un incontro di pugilato, mi ripristino…
Ascoltando le tue canzoni, al di là delle diverse influenze, si respira un’atmosfera di musica da Anni Zero, cioè quando il cosiddetto “Indie” aveva ancora un significato ed una precisa connotazione identitaria.
Se mi paragono a quello che c’è in giro in questi anni, rischierei di risultare estremamente naïf, alla buona; invece sono molto schematico, quasi ossessivo-compulsivo nel mio modo di organizzarmi. Per me la musica non ha mai avuto la volontà di diventare un mestiere. Non che non mi farebbe piacere farlo a livelli alti, intendiamoci, sarebbe bellissimo raccontarsi ad un pubblico grande attraverso la parola in musica. Allo stesso tempo però è un mondo che mi spaventa molto. Ho appena finito di vedere un episodio della nuova stagione di Black Mirror…
Niente spoiler che non l’ho ancora iniziata (risate NDA)!
No tranquillo! Semplicemente, uno dei temi era quello della visibilità, della popolarità, e questa cosa mi ha lasciato turbato; a Milano questo mondo qui è molto presente, c’è anche tutto il discorso della moda, tante persone che lavorano in quell’ambito… quello della popolarità, del successo, è un tema che mi affascina ma che allo stesso tempo mi inquieta. Non mi piace fare le cose a caso, le voglio fare bene, dare sempre il mio meglio. Per cui lavoro in maniera molto metodica ma so anche prendermi in giro, operare una sorta di abbassamento ironico che credo sia necessario in ambito lavorativo.
Puoi spiegarlo meglio?
Può anche darsi che uno perda di vista l’obiettivo. La musica è un’arte dove uno deve raccontare, la mia ambizione è che uno si immedesimi nelle mie parole, deve essere pura espressione, per cui quando vedo che un artista guarda solo i numeri non lo capisco proprio. Poi io ho un rapporto strano coi social, ho 23 anni ma mi sembra in quest’ambito di averne almeno il doppio mi sento molto antico da questo punto di vista. Non è che non sia capace di usarli, però è una modalità comunicativa che non mi appartiene, mi mette a disagio. Tik Tok è molto esplicativa di tante persone che diventano famose senza fare nulla. Eppure sarebbe un mondo perfetto per una persona come me perché c’è la possibilità di raccontarsi, di esprimersi… avevo provato un po’ di tempo fa a fare dei video ma è un format che non funziona, la comunicazione in quest’ambito è troppo breve, mi sembra che non ci sia spazio per raccontare certe cose.
Eppure ci sono diverse persone che lo utilizzano per veicolare contenuti di spessore…
Certo, dev’essere la soluzione giusta per rapportarvisi con maggiore equilibrio. C’è però una certa resistenza ad utilizzare queste piattaforme in maniera “seria”, perché chi sta dietro agli algoritmi spinge su dinamiche molto più superficiali. D’altronde questa è una realtà veloce, accelerata, te lo dice uno che vive in una città dove se non parti immediatamente dopo che il semaforo diventa verde, ti suonano dietro…
Hai suonato dal vivo, ultimamente? Ci sono concerti in programma?
Nelle ultime settimane ho fatto un paio di concerti a Milano e continuerò a farne: ne stiamo organizzando uno al Colibrì, un caffè letterario molto bello sempre qui a Milano. Negli ultimi tempi mi è capitato di suonare tra Milano, Firenze e nelle Isole Eolie, dove vado al mare in estate. Diciamo che in questo momento siamo alla fine del primo capitolo, con questo Nuvola + Sole si è conclusa una fase, adesso voglio un’evoluzione a più livelli, progettuale, di scrittura, di immedesimazione… è stato un mettere il piede nell’acqua per vedere la temperatura, mi sono trovato bene a fare la mia musica e spero che questo mi porti a fare cose sempre più interessanti e rilevanti, magari con una goccia di attualità in più, che sicuramente non guasterà.
Sei da solo sul palco o hai qualcuno con te?
L’ho sempre fatto assieme a qualcun altro, ho la fortuna di avere molti amici nel mondo della musica per cui ho sempre avuto almeno un chitarrista con me. Nell’ultimo concerto che ho fatto c’era un ragazzo con la tromba, Lorenzo Benedusi, è stata una cosa molto particolare. In questo momento come chitarrista mi segue Santiago Rivas, poi ho avuto la fortuna di collaborare con batteristi e bassisti, per fortuna Milano è piena di gente che ha voglia di suonare, di mettersi alla prova, quando suoni con delle persone si crea sempre una realtà molto bella. Suonare insieme, non con la base sotto, ma con la compagnia di altri strumenti, è esattamente quello che voglio fare anch’io.