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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
11/07/2022
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Gianluca Gozzi (TOdays Festival)
A fine agosto, come da tradizione, a Torino tornerà il TOdays, uno dei pochissimi festival in Italia a potersi davvero chiamare tale, con una proposta curata e meditata. Ne abbiamo parlato al telefono con Gianluca Gozzi, direttore artistico del festival, in una piacevole chiacchierata che ha toccato anche temi più vasti, come una possibile prospettiva di sviluppo della musica dal vivo nel nostro paese.

L’estate musicale odierna è la prima senza restrizioni, la prima in cui si possa dire davvero di essere ripartiti. Che si tratti di una ripresa effettiva oppure di una breve pausa prima di un inesorabile ritorno del Covid in autunno, è ancora presto per dirlo. Quel che conta è che da maggio in avanti stiamo vivendo i concerti in piedi, senza mascherina e distanziamenti di sorta, proprio come un concerto andrebbe vissuto. E a fine agosto, come da tradizione, a Torino tornerà anche il TOdays, che è uno dei pochissimi festival in Italia a potersi davvero chiamare tale, con una proposta curata e meditata, diversa da quelle rassegne in cui band di diverso genere si susseguono una dopo l’altra messe insieme con criteri assolutamente causali. L’anno scorso gli organizzatori hanno scommesso sulla possibilità di poterlo tenere, nonostante tutto, e hanno dato vita ad un’edizione entusiasmante, seppur comprensibilmente meno ambiziosa delle precedenti. Quest’anno la Line Up annunciata è quella delle grandi occasioni, in un mix di vecchio e nuovo che mostra come sempre una grande attenzione al presente ed una notevole larghezza di vedute. Ne abbiamo parlato al telefono con Gianluca Gozzi, direttore artistico del festival, in una piacevole chiacchierata che ha toccato anche temi più vasti, come una possibile prospettiva di sviluppo della musica dal vivo nel nostro paese.

 

 

Partirei chiedendoti un parere sull’edizione dello scorso anno: a mio parere, nonostante tutti i limiti e le restrizioni del caso, è stata una gran bella edizione, con band internazionali (che per quel periodo erano decisamente una rarità) e con concerti di enorme qualità. Io personalmente mi sono divertito tantissimo.

Ovviamente il bilancio arriva sempre a posteriori: uno dei paradossi di questo lavoro è che è molto difficile vivere il presente nel momento in cui questo avviene. Spesso mi rendo conto di com’è andata o non è andata solo quando tutto è finito, leggendo pareri e recensioni. È stata un’edizione molto faticosa da organizzare ma, per citare un verso di una canzone che ripeto spesso, “Non è la fatica è lo spreco” (si tratta di “Del nostro tempo rubato” dei Perturbazione, NDA): l’idea era proprio quella di non sprecare l’opportunità di far vedere come si potessero fare delle cose interessanti anche all’interno di una situazione difficile.

La Line up finale che le persone hanno visto sul palco è stata la ventunesima versione, perché tra normative dell’ultimo momento e contagi improvvisi, ci sono state tantissime defezioni. Superato questo, però, siamo rimasti molto soddisfatti. Un po’ perché è stato uno dei pochi eventi in Italia che è riuscito a portare, sia tra gli artisti che tra il pubblico, gente che arrivava da ovunque, anche fuori dall’Italia; cosa che, in quel momento storico particolare, è stato veramente importante. Inoltre si è creata un’atmosfera magica, naturale, non imposta dall’alto, inevitabilmente dovuta al fatto che finalmente le persone si sono ritrovate in un ambiente di socializzazione, a fare quello che in un festival bisognerebbe fare, cioè far parte di una comunità, guardare il vicino non avendone paura ma con un sorriso che diventa contagioso; vivere e condividere, anziché dividere. La stessa cosa è successa per gli artisti: molti di loro non si esibivano da tempo, è stato emozionante anche per loro e questo ha contribuito a creare un’atmosfera molto particolare col pubblico.

In questo senso il bilancio è positivo. Non la considero un’edizione di rilancio, però, perché la cultura in Italia è in crisi da 30 anni, quindi è inutile parlare di rilancio; anzi, quest’anno è andata ancora peggio, tante opportunità che ci sono state non sono state sfruttate, sia per le inadempienze delle amministrazioni pubbliche, sia per colpa degli stessi organizzatori.

 

In che senso?

Viviamo una fase in cui l’offerta sta abbondantemente superando la domanda, questo non può che influire sull’aspetto qualitativo: ci sono più cose, ma con una qualità per forze di cose mediocre. Il pubblico quindi non è più il protagonista, come dovrebbe essere, ma si riduce ad essere consumatore passivo di eventi un po’ tossici, che quando sono finiti non lasciano nulla. In questo senso, dunque, è da capire se quella fatica di cui parlavo prima sarà premiante oppure se rimarrà un vero spreco di opportunità.

 

Oltretutto non è che in Italia ci sia un pubblico così attento alle varie proposte…

L’Italia non è un paese da festival, lo dico da sempre. Quello che invece qui succede è che si continua a pensare al pubblico come ad un consumatore passivo, si organizzano eventi che assomigliano più ad una sagra di paese, che ad un festival vero e proprio. In Italia si fa intrattenimento, non cultura, la cultura per me è una cosa diversa: io vado ad un festival, al cinema, a teatro per formare me stesso, come idee e come relazioni. La cultura ha a che fare con la formazione, non col turismo, finché in Italia si metterà tutto assieme, anche a livello di assessorati, organizzando esclusivamente mega eventi che hanno una proposta confusa, non si offriranno agli spettatori quegli elementi minimi necessari per crescere o anche solo per poter scegliere una cosa o l’altra. Siamo un paese dove c’è più gente che suona, che gente che va ai concerti, sarebbe bene che questi temi venissero affrontati davvero.

 

Parlando dell’edizione di quest’anno, noto che c’è un perfetto equilibrio tra quello che sta succedendo nel presente e le cosiddette “vecchie glorie” del passato. Anzi, quest’anno siete molto più centrati sul presente. Ci sono ad esempio gruppi come Squid, Geese, Yard Act, alfieri di quel ritorno delle chitarre in chiave Wave e Post Punk che, inutile girarci attorno, è una delle costanti di questi ultimi anni. E poi altri artisti contemporanei di generi diversi come Molchat Doma, Tash Sultana, FKJ… il tutto affiancato a mostri sacri come Primal Scream e Arab Strap, questi ultimi oltretutto tornati con un disco eccezionale. Insomma, una Line up così varia e di così alta qualità non la si era mai vista, in Italia.

Sì, abbiamo organizzato una bella pazzia (ride NDA)! Il confine tra il fare una cosa mossi da passione o da ossessione è sempre molto labile (ride NDA)! Comunque sì, noi facciamo questa cosa qui: già il nome stesso del festival è indicativo del nostro stare sul presente e il presente comprende il contemporaneo ma anche quello che verrà; per cui per noi vuol dire anche operare delle scommesse sul futuro, che in realtà però è già contemporaneità. Le band che hai nominato ne sono un esempio: Squid e Geese sono ragazzi poco più che ventenni, riprendono le ansie della nostra epoca, ma prendendo come punto di riferimento la musica del passato. Ci piaceva quindi fare una fotografia dinamica del presente, che si muove, cambia, supera i confini di genere: la scelta di FKJ, ad esempio, va in questa direzione.

In generale, comunque, l’obiettivo di un festival non è fare musica che piace, quanto portare sul palco una selezione di proposte che possa toccare il pubblico, anche in maniera ostica, disturbante. L’idea è quella di tornare a casa con la consapevolezza di aver visto qualcosa di diverso dal quotidiano, scoprire qualche cosa di nuovo da aggiungere alla propria formazione personale. Ovviamente senza escludere che poi uno vada ad ascoltare le cose che piacciono di più. Però può succedere che uno vada a vedere i Primal Scream e scopra gli Yard Act, mentre un altro viene a vedere i Molchat Doma perché li ha sentiti su Spotify e si fa contaminare dalla proposta di FKJ. È un arricchimento, insomma.

 

Insomma, c’è dietro un discorso concettuale che è ben diverso da un semplice accostamento casuale di band.

A livello locale di solito i festival sono solo una carrellata di band con un cambio palco in mezzo. Invece, a mio parere, ci deve anche essere una narrazione: ad esempio, la presenza quest’anno di artisti solisti come Tash Sultana e FKJ, ci piaceva concettualmente perché in questi due anni il concetto di selfish, di isolamento, è stato molto presente. Loro sono persone che espandono il concetto di isolamento attraverso la musica, suonando tutti gli strumenti e creando una situazione orchestrale, questo per noi è molto importante per rappresentare un certo concetto.

 

Sarebbe un salto di qualità notevole se introduceste più palchi: da questo punto di vista il vostro modello rimane ancora un po’ simile a quello della classiche rassegne locali.

Quando organizzi un festival in Italia devi sempre cercare la giusta mediazione tra quello che vorresti fare e quello che puoi effettivamente fare. Laddove il “puoi” si riferisce ai soldi che hai a disposizione, all’impatto economico e culturale del progetto, dove la parola sostenibilità è importante, non posso cioè spendere più di quello che guadagnerò. E poi c’è il fatto che siamo in un paese dove le normative vigenti sono un limite fortissimo a quello che uno vorrebbe fare. Quando arriva un artista straniero che suona in un festival in Italia di solito ti chiede: “Bello questo palco, gli altri dove sono?”, perché nei festival normalmente funziona così. In alcuni anni da noi è stato possibile, adesso no, anche per le normative che rendono impossibile utilizzare certe location pure molto belle. Sai, noi ogni anno facciamo il festival avendo a disposizione meno soldi rispetto agli anni passati, alla faccia della possibilità di rilancio! Quindi quando ti trovi in certe situazioni è difficile organizzare una cosa che si svolga su più spazi. Questa cosa che dici è verissima, ci piacerebbe farlo ma dobbiamo anche vedere la realtà per com’è: quindi adesso avremo un palco principale nella zona dello Spazio211, una zona all’ex Incet che però è da considerarsi più come after party. E poi quest’anno abbiamo perso il parco Peccei…

 

Ma no! Cos’è successo?

Semplicemente, quella struttura che affittavamo, quella cattedrale industriale dove negli anni si sono esibiti artisti come Elio Germano o Sleaford Mods, ci sono stati concerti davvero molto particolari, ha subito il crollo di due calcinacci che avrebbero richiesto una semplicissima manutenzione. Purtroppo la città di Torino è priva delle risorse economiche necessarie e allora un parco pubblico, che vive tutto l’anno della gente che lo frequenta, anziani, bambini, si è visto privato di un’area importante, che al momento è interdetta.

 

Peccato perché quella è una location veramente fighissima…

Speriamo davvero di poter tornare ad utilizzarla. Ci inventeremo qualcosa: dopotutto negli anni abbiamo organizzato le cose in posti assurdi, dai musei alle ex piscine, dando proprio l’idea di un festival diffuso in tante aree della città. Purtroppo con la pandemia sono sorte molte più difficoltà.

 

Ci saranno novità? Cose che non avete mai fatto prima?

Ci sarà tutta la sezione TOlab: percorsi laboratoriali, incontri, meeting, a cui quest’anno abbiamo dedicato una particolare attenzione. Ci saranno tanti incontri, dalle 14 alle 16 nello spazio ex Incet, con ospiti e anche artisti, in qualità di relatori. È un festival nel festival, che fa capire come in una manifestazione del genere ci sia proprio un’immersione che va oltre le esibizioni sul palco. Per quanto riguarda invece i live, il cartellone al momento è quello, sviluppato tra il palco principale e l’ex Incet.

 

Quest’anno a Torino avete avuto l’Eurovision. Ho letto un articolo interessante di Carlo Bordone sull’ultimo numero di Rumore, che sostiene che una manifestazione del genere non serva molto a rilanciare l’attività musicale della città. Tu cosa ne pensi?

Il discorso è piuttosto lungo. Torniamo a quello che ho detto all’inizio: la differenza tra cultura e intrattenimento. Fare cultura vuol dire occuparsi della formazione di un pubblico; divertendosi, certo, ma non soltanto. L’intrattenimento è un format studiato su target di pubblico, di numeri, di contesti e ha obiettivi differenti. È un qualcosa che, come dice Bordone nell’articolo da te citato, assomiglia piuttosto ad una sagra di paese amplificata all’ennesima potenza. L’Eurovision è stato un appuntamento che ha puntato i riflettori sulla città in maniera molto importante, certo. Ora però bisogna capire se una cosa del genere la vogliamo concepire come punto di arrivo o di partenza. Perché se diventa il nuovo modello culturale sulla base del quale gli eventi vengono costruiti e impostati, allora è una cosa tossica, completamente dopata, dove ventimila persone cantano “Occhi di gatto” (risate NDA), ma va completamente a nuocere su un territorio dove c’è un valore che rimarrebbe potenzialità inespressa. Se invece funziona da punto di partenza, cioè come un qualcosa che può fare da volano, valorizzando l’esistente, fatto di fatica, quotidianità, anni di lavoro, allora può essere positivo: un po’ come l’headliner del festival che però ti permette di scoprire quel che viene prima.

 

L’idea che mi sono fatto io è che quest’ultima prospettiva sia ancora molto lontana dalla realtà.

Spesso i politici hanno una prospettiva un po’ offuscata: loro vedono ventimila persone in un palazzetto ad ingresso gratuito con uno schermo che trasmette la partita (perché questo è stato l’evento che ha avuto più successo nella settimana dell’Eurovision) e si entusiasmano. Ma se viviamo in un mondo dove un mega schermo fa più gente dei Primal Scream, perché dovrei fare i Primal Scream, che oltretutto mi costano dieci volte di più? Questo è il loro ragionamento.

 

Purtroppo la politica decide su un mero tornaconto immediato, difficilmente fa investimenti.

Certo, ma è anche perché chiamiamo le cose in modo sbagliato. Quella cosa che fa la politica è mero intrattenimento, ma si continua a chiamarla cultura. La missione della cultura non è portare più gente possibile in un certo luogo ma formare le persone, come detto prima.

 

E si torna quindi al punto di partenza: parrebbe essere tutto ripartito, eppure siamo ben lontani da una rinascita.

Bisogna fare molta attenzione a parlare di rinascita, certo: in questo momento i numeri delle vendite dei biglietti sono molto infelici. La situazione è strana: ci sono biglietti che sono lì fermi dal 2020 e accumulano un venduto che però non è reale. Ma proprio perché l’offerta supera la domanda, tutti i promoter stanno faticando, questa cosa del pubblico che si strappa i capelli perché non vede l’ora di vedere il concerto è una leggenda metropolitana. Veniamo da due anni dove la posizione iniziale della politica, se ti ricordi, era stata: “Faremo senz’altro qualcosa per i nostri artisti che ci fanno tanto divertire!”. La politica ha percepito gli spettacoli dal vivo come un qualcosa di non essenziale e questo, in qualche modo, ha creato una mentalità. Spesso si dimentica che è il pubblico il maggior azionista, senza il pubblico certe cose non si possono fare. Arriviamo da un periodo in cui il famoso sold out spesso ostentato da chiunque è semplicemente un modo per rientrare con le spese, neanche di guadagnarci, perché adesso tutte le spese sono aumentate. Oggi se faccio un concerto ho bisogno del tutto esaurito per andare in pari, capisci che in un sistema così, dove se non faccio sold out sto perdendo soldi, non può reggere in termini di sostenibilità. Bisogna assolutamente cambiare sistema perché altrimenti non si potrà andare avanti a lungo.