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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
13/06/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Long White Clouds
Tra Bergamo e Nuova Zelanda, ecco a voi la bella chiacchierata con Andrew Burch dei Long White Clouds, una band dinamica e appassionata, autrice di un Indie Rock frizzante, che a ottobre farà uscire il suo disco di debutto per la sempre molto attiva Edonè Dischi. In coda due bellissime canzoni acustiche suonate in anteprima per Loudd.

La storia dei Long White Clouds parte da molto lontano: la Nuova Zelanda è probabilmente il posto in assoluto più lontano dall’Italia, ed è un dato per certi versi paradossale, se si considera che i due paesi condividono la stessa estensione della superficie e, in un certo senso, la medesima forma oblunga.

Andrew Burch proviene da lì ma da tempo vive a Bergamo dove, complice incontri fortuiti ed una scena musicale decisamente viva, ha messo in piedi i Long White Clouds. Everyone Around Here Looks Angry, l’EP uscito nel 2020, ci ha presentato una band dinamica e appassionata, autrice di un Indie Rock frizzante, dove è inevitabile cogliere certi riferimenti alla gloriosa storia della Flying Nun, l’etichetta neozelandese per eccellenza. Anticipato dai singoli “Ask Me” e “Get a Grip”, due ottimi brani che manifestano un deciso upgrade nella scrittura, ad ottobre uscirà il disco di debutto, per la sempre molto attiva Edonè Dischi.

Abbiamo fatto quattro chiacchiere in videochiamata con Andrew Burch, per farci raccontare la genesi del progetto ed anche qualcosa di più sulla sua storia personale. Al termine dell’intervista, Andrew ci ha voluto regalare due bellissime ed inedite versioni acustiche dei suddetti brani. Li trovate qui sotto assieme al resoconto di ciò che è venuto fuori.

 

 

Partiamo dall’inizio: come ci è finito un neozelandese a Bergamo?

Fra due settimane saranno 16 anni che sono qua! Ci sono arrivato per questioni di cuore, grazie a Stefania, mia moglie. Ci siamo incontrati a Melbourne nel 2008, sul lavoro, e abbiamo passato un anno assieme. Dopodiché il suo visto è scaduto e in Australia sono molto rigidi su queste cose per cui è dovuta tornare in Italia. A quel punto ho scelto di venire lì da lei e non sono mai più tornato in Nuova Zelanda. Ci siamo sposati, abbiamo due figli e questo è tutto.

 

Se non ho capito male, però, la tua carriera musicale nasce prima.

Esatto. Avevo già iniziato ad incidere canzoni mie in Nuova Zelanda, il mio primo disco in studio era uscito a mio nome poco prima che venissi qui, mentre invece Long White Clouds inizia qui in Italia, in un certo senso proprio grazie a questa storia d’amore.

 

A proposito, com’è che vi siete incontrati, tu e i tuoi compagni di band?

È successo tutto un po’ a caso! Matteo Pansa, che suona il basso ed è uno dei membri fondatori, era un caro amico di mia moglie, sono andati a scuola assieme, me l’ha fatto conoscere lei. Matteo aveva già un gruppo, i Club Fools , nel quale suonava la chitarra Nicola Lazzaroni. Loro hanno sentito la mia roba e mi hanno invitato a fare un po’ di jam con loro. Purtroppo il gruppo si è sciolto poco dopo perché non riuscivamo a trovare un batterista. Noi tre però ci tenevamo a mantenere in piedi qualcosa: abbiamo continuato a suonare assieme, principalmente canzoni scritte da me, e nel frattempo la chimica tra noi cresceva, anche perché avevamo gli stessi riferimenti musicali. Abbiamo trovato subito una dinamica interessante: all’inizio avevamo una drum machine, per cui suonavamo più come gli XX, per darti un’idea. Tutto questo succedeva nel 2009-2010, più recentemente abbiamo anche trovato un batterista. Non abbiamo pensato subito a registrare, ci siamo concentrati più sul suonare in giro, abbiamo fatto diversi concerti assieme ai Plastic Made Sofa, e in seguito Federico Laini, il loro bassista, ci ha prodotto il disco.

 

Parliamo dei due singoli usciti finora, che tra parentesi mi sono piaciuti molto.

Ti ringrazio! “Ask Me”, il primo che abbiamo pubblicato, è stato ispirato da una sessione che ho fatto dallo psicologo, a Milano, un paio di anni fa. Mi ha fatto fare una cosa che non avevo mai fatto: per cercare di ritornare ad un momento traumatico della mia vita, mi ha messo le dita davanti agli occhi e io dovevo seguire le sue dita, in modo che il cervello tornasse ad una sorta di fase rem e visualizzasse i momenti su cui occorreva lavorare. Ci ho pensato spesso, in seguito, per cui il testo parla di questo: recuperare la propria salute mentale, poter ritrovare il sorriso.

La canzone è connessa anche alla storia di mio fratello David, a cui due anni fa hanno diagnosticato un tumore e che è morto alla fine dello scorso anno. Nel 2022, poco dopo la diagnosi, sono tornato in Nuova Zelanda per passare un po’ di tempo con lui e mi sono portato dietro una demo di questa canzone, che avevo scritto da poco. Gliel’ho fatta sentire e lui l’ha subito considerata un pezzo Pop Rock, però la versione demo era molto elettronica, da club, era costruita con diversi loop. Ci abbiamo lavorato insieme e grazie a lui il pezzo ha assunto la fisionomia odierna, quella che ho poi inciso in studio coi ragazzi. Sono contento del risultato e mi ricorderò per sempre quel brano, per il fatto che mio fratello adesso è anche lui dentro quella canzone.

 

Quindi anche tuo fratello era un musicista?

Sì, da piccolo ho fatto il roadie per lui, portando in giro la sua batteria quando era in tour. Era un batterista e un tecnico di studio, negli anni ha avuto diversi gruppi. Quando avevo 10-11 anni lo stimavo molto, per me lui era un’autentica rockstar, aveva avuto anche diversi momenti di successo in Nuova Zelanda e in Australia. Mi piace anche il fatto che lui sia riuscito a sentire la versione finale, prima di morire, mio papà era con lui quando è successo e mi ha detto che gli ha dato una grande gioia.

 

E invece “Get a Grip”?

Il testo è piuttosto nichilista, riflette certi pensieri cupi sulla situazione del mondo, leggendolo credo che si percepisca che è ispirato da questo. C’è un aereo che, di base, è una metafora della vita, un aereo su cui tutti dobbiamo salire a bordo ma che è destinato ad esplodere. So che può sembrare una visione cupa, non dico che siano cose che penso sempre, ma a volte mi sembra davvero così, un aereo fuori controllo dove chi è al comando se ne frega ed anzi, vuole proprio intenzionalmente precipitare.

 

Musicalmente, però, si tratta di un brano piuttosto aperto.

Appunto. È sicuramente un effetto voluto: il personaggio che canta quella canzone è il pilota, che ti invita a salire sull’aereo, poi ad un certo punto passa alla prospettiva del passeggero, che chiede se può usare un paracadute; da questo punto di vista può quindi essere interpretata come una possibilità di speranza, coi passeggeri che possono saltare fuori. Mi ricordo di quando l’ho scritta: in origine il testo era un po’ ironico, ed era in italiano. Sono qua da 16 anni e mi sembrava bello provare per una volta a cimentarmi con la lingua, però i miei compagni lo hanno bocciato alla grande (risate NDA)! Ero consapevole che per loro sarebbe risultato forzato, per cui poi ho lavorato a quello in inglese. Di conseguenza, forse, la parte più ironica, anche più luminosa, del testo, è sparita ed è confluita sulla musica.

 

Cosa puoi dirmi sul resto del disco? Sarà più o meno sulla falsariga di questi brani oppure ci saranno sorprese? Sai già quando uscirà?

Diciamo che questi due sono un bell’esempio di come sarà l’album. In tutto saranno otto pezzi e dovrebbe uscire ad ottobre, per Edonè Dischi. Uscirà in vinile e la data precisa dipenderà molto da quando saranno pronti, in ogni caso vorremmo fare tutto assieme, fare uscire la versione in streaming contemporaneamente al formato fisico. Gli altri due singoli che usciranno saranno musicalmente simili a questi, toccheranno sempre temi introspettivi, che hanno a che fare con la mia salute mentale. Questo perché Long White Clouds per me è nato proprio come uno sfogo personale, un’opportunità di raccontare di me, di dire come mi sento, di mettere sul tavolo quello che ho nella testa e guardarlo.

 

A proposito, da dove viene il nome Long White Clouds?

Nella lingua Maori il nome della Nuova Zelanda è Aotearoa, che significa “Terra della lunga nuvola bianca”: è dunque un modo per esprimere il legame con le mie origini.

 

Oltretutto la Nuova Zelanda ha una tradizione musicale invidiabile: c’è tutta la storia del Dunedin Sound, con le band della Flying Nun, ma anche i Church, che ai tempi hanno avuto un discreto successo anche dalle nostre parti. Ascoltando le tue cose queste influenze un po’ vengono fuori: le riconosci, oppure sei stato ispirato anche da altro?

Crescendo in Nuova Zelanda, ho sempre amato le cose che hai citato, ma ci aggiungerei anche Dave Dobbyn, un cantautore leggendario, che per me è un mito assoluto. Comunque certo, la musica neozelandese ha avuto su di me un impatto enorme. Mi piacciono molto anche i Crowded House, che hanno fatto cose molto belle e che recentemente si sono riformati. Amo la storia della nostra musica, certe canzoni di Dave Dobbyn, come ad esempio “Language”, o anche la colonna sonora di un film che si chiama Footroot Flats. È un cartone animato con un cane come protagonista, lui ha scritto le canzoni della colonna sonora, che nel frattempo sono diventate dei veri e propri inni nazionali del nostro paese, sono conosciute da tutti, sono entrate di diritto nella nostra cultura popolare. Un pezzo come “Slice of Heaven”, ad esempio: erano i primi anni ’90, io avevo 9-10 anni e quando ho iniziato a suonare la chitarra, più o meno a quell’età, facilitato anche da mia mamma che insegnava musica, le prime canzoni che ho imparato sono state proprio quelle!

 

In Italia la musica è da sempre snobbata dalle autorità, che non considera quello del musicista come un vero lavoro, mentre il luogo comune, tra artisti ed addetti ai lavori, è che in generale all’estero le cose vadano molto meglio. Ormai sei qui da diverso tempo e ti sarai fatto un’idea in merito, immagino.

Mi trovo bene qui in Italia, anche se ovviamente faccio fatica a definirmi un musicista, preferisco che lo facciano gli altri; di sicuro mi piace scrivere canzoni! Ad ogni modo, quando sono arrivato, mi è subito risultata immediata la differenza tra Bergamo e Melbourne, dove abitavo, ma anche con la mia piccola città in Nuova Zelanda, per quanto riguarda la disponibilità di musica dal vivo. Qui non c’era, o se non altro non era evidente, dovevi andartela a cercare appositamente. Però forse anche per il fatto che non parlavo italiano, era tutto molto più difficile. I primi due anni sono stati un po’ così, oggigiorno c’è una realtà di musicisti indipendenti che è anche bella viva, ci sono tanti artisti locali tra Bergamo e Milano che mi piacciono molto, probabilmente la situazione non è così male, anche se ovviamente non è paragonabile con quella di altri paesi.

Dal mio punto di vista sono contento, anche se percepisco una certa tendenza a seguire ciò che va di moda, senza troppo sperimentare. C’è come una volontà di essere la next big thing, senza volere davvero sviluppare un’identità personale. Al di là di questo, i posti per suonare ci sono più di prima, a Bergamo le occasioni non mancano e sono sempre di più. Noi da questo punto di vista siamo un po’ pigri ma speriamo che, una volta che il disco sarà uscito, suoneremo un po’ di più.

 

Ecco appunto: che mi dici dei prossimi appuntamenti live?

Parteciperemo al festival Clamore qui a Bergamo, come tutti gli anni. Suoneremo sabato 29 giugno, per la precisione alle 22.45 sul palco 1 di Edonè. Non ci stiamo impegnando troppo per trovare date: vogliamo suonare, certo, ma vogliamo avere anche del materiale fisico da promuovere. Dopo aver alzato il livello, facendo uscire questi singoli, vogliamo aspettare il disco e poi buttarci sui live, con un piccolo tour tra Bergamo, Milano e dintorni. Ci sarà comunque senz’altro un concerto di presentazione dell’album, in collaborazione con la nostra etichetta.