Se potrà essere una formula replicabile e sostenibile anche sul lungo periodo non è detto e probabilmente sarebbe meglio non farsi illusioni. Detto questo, Io cerco per sempre un bivio sicuro, documentazione su disco di una delle quattro session aperte al pubblico realizzate da Marco Giudici alla Casa degli artisti di Milano, sembrerebbe far intravedere una piccola luce nel panorama incerto della scena musicale contemporanea.
In compagnia di Alessandro Cau e di Adele Altro, il polistrumentista e produttore, forse conosciuto ai più per essere “l'altra metà” di Any Other (il duo di stampo Alt Folk messo in piedi proprio con Adele) si è esibito in una sorta di prova aperta, composta prevalentemente di materiale improvvisato: variazioni su un piccolo tema di Synth nella fase iniziale, e poi spazio a quello che accadeva nell'interazione tra i tre. Il risultato è stato poi fissato in studio, con un minimo lavoro di editing, ed è ora disponibile per tutti: 15 minuti di musica che suona a tratti vicina a Stupide cose di enorme importanza, l'esordio di Marco da solista, ma che per il resto si muove in autonomia, plasmato dal fantasioso lavoro di Alessandro alla batteria e dai puntuali interventi di Adele al sax. A chiudere arriva anche un episodio in forma canzone, musica di Marco, parole di Adele, che è semplicemente una delle cose più belle che i due abbiano mai scritto e che ci ha fatto intravedere un futuro alternativo in cui Any Other è un progetto cantato in italiano e non perde neppure una goccia del proprio fascino.
Ho chiamato Marco poco prima di Natale e abbiamo parlato di un po’ di cose: di questo disco, di com'è stato tornare a suonare dal vivo dopo tanto tempo, dello stato attuale della musica, del suo lavoro di produttore e degli immancabili progetti futuri.
Innanzitutto complimenti per il disco, lo sto ascoltando da un po’ di giorni e mi sta piacendo molto. L’ho trovato in un certo qual modo in continuità col tuo esordio di fine 2020, per approccio generale e sonorità. Mi piacerebbe sapere, visto che si tratta di materiale nato da una session aperta al pubblico, che tipo di passaggio c’è stato tra quelle session e il disco che stiamo ascoltando.
Le session sono state quattro, si trattava di un lavoro di improvvisazione a partire da un drone che avevo già scritto e messo nel campionatore, quindi la base era quella. Nella pratica sono venute fuori quattro session abbastanza diverse, anche se gli spostamenti per ragioni logistiche erano sempre gli stessi, rispetto al posizionamento degli strumenti. Quello che poi ha separato la performance dal disco è stato semplicemente il lavoro di mixaggio e il controllo delle dinamiche. Sul disco è finita la quarta performance, così come è iniziata e finita, tranne cinque minuti che si ripetevano un po’ troppo e che per questo motivo ho deciso di tagliare. Per il resto non è stato aggiunto nessun effetto, nessun overdub: abbiamo lasciato tutto così com’era.
Tutto molto naturale, quindi…
Sì. Anche perché la cosa più importante di quella performance è stata l’ascolto condiviso con gli spettatori, perché l’aspetto visuale per me è importante esattamente quanto la musica
In passato avevi già realizzato una cosa così: mi ricordo che con Any Other avevate fatto una bella live session in collaborazione con Spotify, appena prima della pandemia…
È diverso, perché quella era una cosa organizzata da altri, questa invece è una session che io, Adele, Alessandro ed Emiliano [Colasanti, responsabile della 42Records NDA] abbiamo pensato. Sul tavolo di lavoro ho portato la mia passione per il lavoro coi droni e l’improvvisazione e da lì siamo partiti.
Non credi che questo tipo di iniziative che contemplino un rapporto diverso tra pubblico e artista ppossano contribuire ad uscire un po’ da un circolo vizioso nel quale l’ascolto della musica, nell’esperienza dello streaming soprattutto, sembra essere rimasto intrappolato?
Di fatto tutta questa cosa parte da un’esigenza mia, poi però mi rendo conto che ci sono tanti fattori esterni, per cui potrebbe anche essere letta nel senso che dici tu. Mi sto rendendo conto che ci sono tante cose che penso io e che poi, quando le porto fuori e ne parlo con gli amici, scopro che ci stanno pensando anche loro. Di conseguenza tendo a fidarmi delle cose che sento io e tra queste, si, c’è anche una certa insoddisfazione nel modo in cui la musica viene proposta, perché lo trovo molto stanco, a compartimenti stagni. Quindi è un discorso che in questi anni è venuto fuori con amici e colleghi. Adesso ad esempio sto producendo un disco, anche se non ti posso dire di chi, e ci siamo trovati ad un tavolo a dire: ma abbiamo voglia di far uscire questo disco in digitale, su Spotify, così dal nulla? E poi di fare un tour che nel giro di due mesi risulterebbe esaurito? Nessuno di noi ha voglia di una cosa così, oggi, quindi probabilmente anche le persone che ascoltano potrebbero essere un po’ nauseate da questo percorso sempre uguale. Mi auguro ci sia probabilmente qualcosa nell’aria favorevole ad una ricostruzione, a ritagliarsi dello spazio per delle nicchie, dei metodi alternativi per fare le cose
Come ti dicevo, il disco è molto bello. L’unico difetto, come si dice in questi casi, è che dura troppo poco: come mai non hai sentito l’esigenza di metterci dentro qualcosa in più?
Durante la performance è successo quello e non volevo intervenire più di tanto. Dovevo solo scegliere se tenere una sezione che non aggiungeva nulla oppure tagliarla. Ho deciso di tagliare per renderlo più conciso. È un disco abbastanza corto però essendo ricavato da una performance, è successo quello e mi tengo quello.
Avete appena fatto dei concerti per suonare questo materiale dal vivo. Purtroppo la data di Milano coincideva coi Nada Surf per cui non sono riuscito a venire. Com’è andata?
La cosa che mi conforta e sorprende è che sia alla Casa degli Artisti che a queste date c’è stata una partecipazione molto educata e molto sentita, ho sentito che quello che proponevo è stato accolto e capito in modo molto spontaneo. poi c’è anche il fatto che il mio primo disco, Stupide cose di enorme importanza, non l’ho veramente vissuto dal vivo e io sono cresciuto con questo approccio, che tu fai un disco e lo suoni, capendo se alla gente è arrivato o meno.
Si tratta di un disco che nasce soprattutto da improvvisazione. Concretamente, come avete operato? Vi siete dati qualche indicazione? Qualche limite o paletto?
L’unico paletto che c’è stato lo abbiamo messo per le questioni logistiche della disposizione degli strumenti, soprattutto programmando gli spostamenti che avremmo fatto io e Adele, perché poi Alessandro sarebbe sempre rimasto alla sua postazione di batteria e percussioni. Avevamo un piano acustico, un wurlitzer, un hammond, una posizione di Synth… dovevamo decidere con quali strumenti avremmo iniziato e come ci saremmo spostati. Poi ho chiesto loro di lasciarmi un attimo da solo all’inizio, perché volevo fare questa cosa coi Synth, un piccolo tema che nei mesi precedenti mi ero canticchiato tra me e me ma che non avevo mai di fatto suonato. Per quanto riguarda l’interazione tra noi tre, è molto naturale, non verbale. Io e Adele sono dieci anni che facciamo tutto assieme, con Alessandro ci conosciamo da meno tempo ma si è subito creato un legame fortissimo e istintivo. Ci siamo conosciuti lavorando insieme a Miles Cooper Seaton al disco di Tobjah. Io e Adele siamo piuttosto diversi come gusto e approccio, Alessandro è un po’ più a suo agio di me nell’improvvisazione e nella ricerca, ha una formazione più Jazz che probabilmente ci ha portato verso un’estetica che altrimenti da soli non avremmo esplorato.
Probabilmente per il fatto che sei anche un produttore, siamo abituati a considerarti come uno che sta dietro alle quinte, per cui sentirti cantare, già col primo disco, è stata un’esperienza per certi versi sorprendente. In realtà poi è stato bello constatare come tu in realtà sia perfettamente a tuo agio con la voce, hai un bel timbro e la usi benissimo…
Per quanto riguarda invece il mio approccio alla voce, col primo disco non mi sentivo troppo a mio agio, questa volta invece l’ho vissuta molto bene, non credo di essermi messo a cercare una voce che non era la mia. Spesso mi capitava di mettermi un po’ troppo in difficoltà col cantato ma psicanalizzandomi poi a posteriori, mi sono reso conto che era perché le caratteristiche mie le catalogavo come difetti e tendevo a coprirle. Poi magari sono davvero difetti, eh! Però mi piacciono i difetti nelle persone e quindi mi sono detto: tu sei questo e devi accettarti così. E anche la decisione di registrare in presa diretta, è stato per invogliarmi a mettermi davanti a questa condizione, devo dire che mi ha fatto molto bene.
Già che parliamo di voci: il disco si chiude con “Un bivio sicuro”, un brano che segue in tutto e per tutto la forma canzone e che tu e Adele cantate in coppia.
È stato tutto molto spontaneo: le avevo mandato la demo da ascoltare e lei un giorno sì è svegliata e ha scritto questo testo.
A proposito: che cosa significa “Io cerco per sempre un bivio sicuro”? È un’espressione che assomiglia molto ad un ossimoro.
L’ha scritto Adele e quindi non lo so di preciso, dovresti chiederlo a lei anche se, conoscendola, qualche cosa posso immaginarla. Io in realtà non l’ho elaborato troppo. Credo per me che abbia a che fare con quello che ti ho detto prima: avevo voglia di fare questa cosa e non potevo scegliere una take migliore dell’altra, dovevo prendere il pacchetto completo. Questo ha a che fare col rapporto con me stesso, con l’accettare le caratteristiche delle altre persone e adattarsi, ed è una cosa che abbiamo fatto: eravamo in tre a improvvisare, non si poteva certo camminare sopra all’altro.
Preferisci il lavoro di musicista o quello di produttore? Per come ti vedo io, mi sembra che in te questi due aspetti siano molto uniti, nel senso che ho come l’impressione che tutto nasca dal tuo grande amore per la musica, una passione talmente forte, che viene espressa sia che tu faccia le tue cose, sia che ti metta al servizio degli altri…
È esattamente come hai detto, mi sento proprio così. C’è poi un grande distinguo da fare, perché quando lavoro per altri è come se per empatia mi trasformassi nell’altra persona, per cui gusto e priorità vanno lì. Quello che quindi devo cercare di fare è, chiuso un progetto, ricordarmi di tornare a me stesso perché io sono un’altra cosa. È un esercizio che sto cercando di portare avanti ogni giorno. In realtà adesso il mio studio è ancora a casa mia ma tra qualche mese ne avrò un altro separato, quindi questo processo sarà più facile. Comunque sì, è come hai detto, è un tutt’uno di passione, è in assoluto la cosa che più preferisco fare.
Da ultimo, non posso non chiedertelo: tornerete a fare uscire musica come Any Other? L’ultima volta che ho intervistato Adele, a giugno, mi ha detto che qualcosa prima o poi succederà.
Penso proprio di sì: se l’ha detto Adele, mi limito a confermare quello che dice lei, senza aggiungere nulla…