Il Santeria questa sera è sold out e non potrebbe esserci modo migliore per celebrare l’ennesima calata italiana dei Mudhoney, che a questo giro comprende quattro date (prima di Milano ci sono state Roma e Firenze, dopodiché suoneranno a Pordenone). La band di Mark Arm ha sempre goduto di grande favore presso il pubblico nostrano, probabilmente anche grazie alla grande popolarità del Grunge dalle nostre parti, molto viva anche in questi ultimi anni. Attenzione però a non accostarli troppo a Nirvana, Pearl Jam e compagnia bella. Se è vero che l’etichetta “Grunge” fu inventata dalla stampa specializzata per definire band che provenivano dallo stesso posto ma che si assomigliavano molto poco tra di loro, è altrettanto vero che i Mudhoney iniziarono molto prima che Seattle finisse al centro della mappa globale del rock, e che non godettero mai di tutto il successo commerciale che seguì. Meno talentuosi? Per certi versi si può dire così, ma soprattutto non ebbero mai nel loro dna quella vocazione mainstream e quella ossessione di arrivare in cima che era invece propria di alcuni loro colleghi.
Nel loro sound, oltre ad una buona dose di pesantezza Sludge, c’è sempre stato quello spirito Punk e Garage, che ha fatto sì che fossero più che contenti nel riempire piccoli locali e di coltivare una piccola ma fedele fanbase in tutto il mondo. A più di trent’anni di distanza, possiamo dire che tutto questo abbia pagato: il cosiddetto Grunge è scomparso, i gruppi di quella generazione non esistono più (tranne i Pearl Jam, ma negli ultimi anni sono diventati una roba talmente triste che non vale la pena neppure nominarli), eppure i Mudhoney continuano ad andare avanti imperterriti, con una formazione che è praticamente sempre rimasta la stessa, ed una discografia che, pur senza grosse variazioni, ha mantenuto un livello qualitativo costante, senza troppi cali di tensione, e con un ultimo lavoro, Plastic Eternity, che è probabilmente uno dei loro migliori in assoluto.
Sono le sei di sera, fuori dal locale c’è già qualche irriducibile pronto a conquistare la prima fila, quando incontro il disponibilissimo Bob De Witt, che mi accompagna sul tour bus della band dove, in un tavolino situato nella parte posteriore, c’è Steve Turner che si sta rilassando leggendo un libro. Mi accoglie con un sorriso, mi fa accomodare e mi chiede, genuinamente interessato, il nome della testata per cui si svolgerà questa intervista. Più che il chitarrista di una band che ha fatto la storia del rock, sembra un tranquillo intellettuale di provincia, e tutta la soggezione che provavo un momento prima svanisce di colpo. È stata una chiacchierata piacevolissima, con un interlocutore molto disponibile, umile e davvero desideroso di raccontare gli ultimi passi della sua band. Qui di seguito il resoconto.
Plastic Eternity è uscito ormai più di un anno fa: che idea hai di questo disco adesso?
Beh, è sempre lo stesso disco (ride NDA)! A parte gli scherzi, siamo molto contenti di come è venuto fuori. La lavorazione è stata molto diversa rispetto al solito perché eravamo in piena pandemia e per un anno e mezzo non siamo riusciti a vederci tutti assieme. Normalmente completiamo tutte le canzoni prima di andare in studio, così che quando siamo lì siamo già pronti a registrare. Questa volta invece ci siamo trovati a dover definire diversi elementi direttamente in studio. So che molte band fanno così, però per noi era la prima volta ed è stato strano. Ci siamo comunque divertiti, è stato interessante, in più il nostro produttore, Johnny Sangster, ci ha aiutati molto; inoltre Dan (Peters, il batterista NDA) ha portato dei demo con parecchie idee per canzoni nuove, una delle quali è poi diventata “Little Dogs”. È una cosa positiva perché di solito lui non partecipa così tanto al processo di scrittura. In generale quindi è stata una bella esperienza, ci siamo divertiti. Ti posso già dire che lo rifaremo senz’altro perché nel frattempo Guy (Maddison, il bassista NDA) si è trasferito in Australia, quindi per il prossimo disco siamo già sicuri che non potremo incontrarci di nuovo tutti assieme. Ma sono sinceramente curioso di vedere che cosa ne verrà fuori!
Personalmente mi è piaciuto parecchio. Trovo che sia leggermente più vario rispetto agli altri e che ci siano un paio di pezzi che hanno caratteristiche piuttosto inusuali per voi: “Little Dogs”, che hai citato adesso, è molto leggera e rilassata, mentre “Tom Herman’s Hermits” ha un’atmosfera strana, quasi “fredda”, direi…
“Tom Herman”… com’è che il titolo esattamente?
“Tom Herman’s Hermits”
Sì, giusto. Tom Herman era il chitarrista dei Pere Ubu, la canzone è dedicata a lui e credo che nel testo Mark abbia voluto far riferimento al fatto che lui non era praticamente presente online, praticamente era come se non esistesse, non ha mai voluto essere parte del mondo contemporaneo e questo credo che abbia colpito molto Mark in positivo, al punto da volerci fare una canzone. Non direi che sia un pezzo “freddo”: sai, ho provato a leggere il testo e a capire che cosa potesse significare e credo che ci siano tanti riferimenti al fatto che, per Mark, Tom Herman fosse una specie di fantasma…
Io intendevo “freddo” dal punto di vista delle atmosfere musicali, non del testo. Non so, c’è qualcosa che mi rimanda alla Cold Wave…
Ah ok! Beh sì, può anche essere, dopo tutto è dedicata ai Pere Ubu!
Certo! Potrebbe essere che inconsciamente abbiate cercato di richiamarvi al loro stile particolare?
Assolutamente! Anche il testo contiene riferimenti a loro brani: nel ritornello c’è quel “Right On” che si ripete, che è preso da quella canzone… non ricordo come si chiama, ma mi pare fosse su Dub Housing. Ad ogni modo, è il nostro personale omaggio ai Pere Ubu e a Tom Herman.
La suonerete stasera?
Certo!
Splendido! Senti, normalmente i gruppi storici come il vostro sono ricordati principalmente per i primi lavori. Nel vostro caso però credo che nel corso degli anni siate migliorati parecchio. Gli ultimi due dischi soprattutto, Digital Garbage e Plastic Eternity, sono davvero belli, e non è scontato dopo tutto questo tempo.
Sì, credo che al momento abbiamo raggiunto un vero e proprio picco creativo. Gli ultimi due dischi sono in un certo senso gemelli, lo si capisce già dai titoli, che parlano bene o male degli stessi temi (l’inquinamento e l’emergenza climatica, NDA). Sono molto contento di entrambi; credo che il punto di svolta sia da individuare nell’entrata di Guy nella band. I primi due dischi che abbiamo fatto con lui erano ancora così così, poi è uscito The Lucky Ones e lì è stato interessante perché ha coinciso con una sorta di crisi di mezza età, Mark ha lasciato un po’ stare la chitarra e abbiamo ripreso a fare Punk Rock come ai vecchi tempi, è stato divertente e ancora oggi ci piace suonare dal vivo alcuni brani da quel disco, con Mark che non suona e si limita a cantare. Penso inoltre che il segreto di tutta questa ispirazione sia che andiamo ancora molto d’accordo tra di noi, ci piace passare del tempo assieme, quando siamo in tour andiamo fuori a cena tutte le sere. Del resto durante l’anno non abbiamo molte occasioni per vederci: io vivo a Portland, Guy, come ho detto prima, due anni fa ha deciso di tornare a Melbourne con la sua famiglia, dopo aver vissuto trent’anni a Seattle. I tour sono dunque l’unica occasione che abbiamo per ritrovarci, ci piace ancora molto andare in giro e credo sia questa la ragione per cui siamo rimasti così creativi.
Ti stavo appunto per chiedere qual è il segreto di questo stato di forma e di questa stabilità (è un caso più unico che raro ma, a parte Guy che è subentrato nel 2001, non avete mai cambiato formazione) ma a questo punto mi hai già risposto.
Siamo amici, tutto qui. In più recentemente sono riuscito anche a riallacciare i rapporti con Matt Lukin, il nostro vecchio bassista.
Davvero?
È venuto ad uno dei reading del mio libro e siamo usciti assieme un paio di volte, a Seattle. È stato bello rivedersi dopo così tanto tempo, lui ora fa una vita molto ritirata, quasi da eremita. Recentemente però è venuto anche ad un nostro concerto!
Hai già spiegato come per questo ultimo disco abbiate lavorato in modo diverso al processo di scrittura. In generale, da quando avete iniziato c’erano già stati altri cambiamenti?
Abbiamo sempre scritto le canzoni nel seminterrato di Mark: le completiamo, le rifiniamo e poi andiamo in studio a registrarle, come ti dicevo prima. Non l’abbiamo fatto per questo disco e per il prossimo sarà uguale, a meno che Guy non venga a Seattle per due mesi o forse anche di più. Non lo so, magari lo farà anche, non abbiamo ancora parlato bene dei nostri progetti futuri. In ogni caso, negli ultimi vent’anni abbiamo fatto uscire un disco più o meno ogni cinque anni, non abbiamo mai avuto fretta e non ne abbiamo neanche ora. Adesso siamo in tour, quando avremo finito cominceremo a mettere insieme qualche idea per le nuove canzoni. Di sicuro c’è che non ci è mai piaciuto scambiarci file via mail, preferiamo essere assieme nella stessa stanza quando componiamo; adesso però non so, magari ci inventeremo qualcosa di nuovo.
La vostra situazione è comune a parecchie band, ormai. Sono tante quelle che hanno i componenti che vivono lontano e che lavorano a distanza mandandosi spunti via mail.
Non siamo contrari a priori, dopotutto ci sono diversi modi di scrivere canzoni. Noi abbiamo Mark, che è il songwriter principale ed è lui che di fatto guida il processo. Tutti noi contribuiamo con delle idee però poi sta a lui mettere tutto assieme e trasformarle in una canzone completa, comprensiva di testo. Mark, tuttavia, non è un songwriter tradizionale, perché difficilmente arriva da solo con una canzone completa.
I testi li scrive ancora tutti lui?
Sì, è sempre tutta roba sua.
Intervenite in qualche modo sulle cose che scrive oppure gli dite sempre che va tutto bene?
Non gli abbiamo mai fatto nessun tipo di problema, dopo tutto è lui che deve cantare quei testi! Credo che se un giorno volessimo contribuire in alcun modo, poi dovremmo metterci a cantare anche noi, quindi va bene così (ride NDA)!
Di recente hai pubblicato un libro, A Messy Trip Through the Grunge Explosion, che purtroppo non sono ancora riuscito a leggere. Tra l’altro ho visto che in italiano non è stato ancora tradotto.
Al momento l’unica traduzione è stata in spagnolo. Prossimamente potrebbe arrivarne una in portoghese, per il mercato brasiliano.
Dalle nostre parti siete piuttosto popolari per cui non è escluso che qualcuno ci pensi prima o poi. Che esperienza è stata per te, scrivere un libro?
Si è trattato di un progetto portato avanti durante la pandemia. Il mio co-autore, Adem Tepedelen, che è uno scrittore che vive a Seattle, è stato anche per tanti anni Editor presso The Rocket, mi ha contattato e mi ha proposto che lavorassimo insieme a qualcosa. Ci ho pensato un po’ ma in effetti in quel periodo non è che stessi facendo molto altro (ride NDA) per cui ho accettato. Abbiamo iniziato a vederci su Zoom e gli ho raccontato diversi aspetti della scena musicale di Seattle, concentrandomi soprattutto sugli anni ’80, perché è lì che sono venute fuori tutte quelle band Grunge ed è nata quella scena di cui anche noi facevamo parte. Ho parlato parecchio di quello e pian piano il progetto ha iniziato a prendere forma. Mi hanno proposto un contratto e quindi circa un anno fa il libro è uscito. Ho poi tenuto diversi reading in giro, per presentarlo, ma in generale non è che sia stato promosso tantissimo, per ora. È uscito negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, per questa casa editrice che si chiama Omnibus Press e che credo pubblichi solo libri di musica; è un buon editore e sono contento di essere uscito con lui. Devo dire di essere soddisfatto, cambierei forse qualche cosa qua e là se potessi, anche perché è il primo libro che scrivo e non sono molto esperto (ride NDA). In passato ho fatto un po’ giornalismo ma niente di che, solo roba di musica, non mi sono mai occupato di un progetto così grosso. È stato divertente e spero di poterne scrivere ancora, in futuro.
Com’è la vostra quotidianità oggi? Ricordo una vecchia intervista in cui raccontavate che non riuscivate a vivere di musica e che dovevate tutti fare altri lavori. È ancora così?
Sì, è ancora così. Mark dirige ormai da vent’anni il magazzino della Sub Pop, io ho sempre fatto diverse cose, anche se la mia principale occupazione oggi è quella di vendere dischi online. Il libro in particolare è stata un’ottima occupazione durante il Covid, perché mi ha permesso di superare quel periodo difficile. Adesso, quando torneremo a casa dal tour, sicuramente mi troverò qualche occupazione secondaria. Guy invece è infermiere, durante la pandemia ha lavorato tantissimo, era il capo infermiere di uno dei più importanti ospedali di Seattle. Ha tirato fuori anche un bellissimo podcast, da questa esperienza.
Ma dai? Non lo sapevo!
Sì, purtroppo non ricordo il titolo ma credo che sia interamente disponibile su YouTube. Adesso che è tornato in Australia fa sempre l’infermiere ma lavora part time e nel resto del tempo si occupa della figlia, la moglie ha un lavoro molto ben pagato, che è anche la ragione per cui alla fine hanno deciso di trasferirsi.
E la musica, come procede? In questi ultimi anni hanno tenuto banco le vicende di molti artisti, anche piuttosto grossi, che hanno dovuto annullare i loro tour oltreoceano a causa dell’aumento dei costi, voi come ve la cavate?
Stranamente, il Covid non ci ha danneggiato più di tanto. Il primo tour che abbiamo fatto subito dopo il lockdown è stato negli Stati Uniti ed è andato benissimo anche se, tempo due settimane, ci siamo ammalati tutti (ride NDA)! Guy soprattutto ci è rimasto malissimo perché ha lavorato due anni in ospedale, a contatto coi malati, e non ha mai preso il Covid. Poi viene in tour con noi e dopo due settimane si ammala: era veramente incazzato (ride NDA)! Al di là di questo, è stata una bella esperienza, si vedeva che la gente aveva davvero voglia di musica dal vivo. Abbiamo anche venduto molto più merchandising rispetto a prima della pandemia: l’impressione è che il pubblico abbia capito che per i musicisti è stata particolarmente dura e li volesse sostenere. Dopotutto è dura per le band come la nostra, dal momento che con le royalites dei dischi guadagniamo molto poco e che le piattaforme streaming non pagano nulla. Ci sono rimasti solo i tour, per cui è senz’altro positivo che la gente ci voglia aiutare così tanto.
Quindi al momento riuscite a far quadrare i conti?
Sì, assolutamente!
In effetti il vostro show non ha bisogno di una grande produzione, siete voi quattro sul palco coi vostri strumenti e nulla più.
È vero, e poi ci portiamo dietro solo un paio di membri della crew, viaggiamo su un bus e, ovviamente, non dormiamo in hotel. Abbiamo scelto di viaggiare di notte, subito dopo il concerto, e di svegliarci al mattino in una nuova città, avendo anche il tempo di girare un po’ per i centri storici, quando siamo stanchi di rimanere sul pullman tutto il giorno… insomma, ci piace ancora molto andare in giro così!
Non sentite ancora gli acciacchi dell’età? Ho in mente diverse band che ad un certo punto dicono: “Siamo troppo vecchi per fare questa vita!”
Tranquillo, ci stiamo arrivando anche noi (ride NDA)! Ci lamentiamo sempre più spesso di malanni e dolori vari! Dopotutto io ho 59 anni, Mark 62, Dan si è operato ad un’anca un paio di anni fa… siamo una band di vecchi (ride NDA)! È stancante, non lo nego, però ci divertiamo ancora tantissimo a farlo!
Vent’anni fa hai avviato una tua carriera solista però adesso è da un bel po’ che non pubblichi più nulla.
È iniziato tutto in modo strano: all’epoca vivevo da solo e lavoravo come giardiniere, avevo anche diverso tempo libero per cui ho iniziato a suonare la chitarra e a cantare nello stesso tempo, una cosa che non avevo mai fatto. Mi mettevo lì al mattino, prima di uscire a lavorare, e strimpellavo un po’ provando a scrivere qualcosa, approfittando del silenzio, del fatto che non ci fosse nessuno in giro. Per me scrivere canzoni è sempre stato un processo molto umiliante, mi è difficile soprattutto cominciare, per cui essere da solo mi metteva a mio agio. Poi però sono arrivati i figli e di colpo la casa non è stata più vuota (ride NDA); adesso sembra che la musa mi abbia abbandonato. Ho pubblicato tre dischi, i figli nel frattempo sono cresciuti, hanno 24 e 19 anni ma vivono ancora con me (ride NDA)!
Non la situazione ideale, immagino.
Sono divorziato e i figli stanno con me: mi fa molto piacere che ci siano ma effettivamente per poter scrivere avrei bisogno di una condizione di tranquillità che, al momento, mi è preclusa. Spero di poter tornare a realizzare qualcos’altro, prima o poi, anche se però, pensandoci, credo di aver detto tutto quello che potevo dire, come solista. Sono molto soddisfatto dei tre album che ho registrato quindi forse va bene così.
Potendo tornare indietro, cambieresti qualcosa nei vari dischi che avete registrato? Guardandoli tutti in prospettiva, riesci a dire quale sia il migliore? E il peggiore?
Ci sono senza dubbio alcune cose che vorrei cambiare, ma sono tutti dettagli di poca importanza, perché alla fin fine ogni nostro lavoro è un’istantanea che fotografa il periodo in cui è stato realizzato, quindi in fondo è giusto che siano usciti nel modo in cui sono usciti. Forse non sono contentissimo di Every Good Boy Deserves Fudge: penso che se avessi potuto avere più controllo all’epoca, l’avrei reso un po’ meno Grunge e un po’ più Garage. Era un periodo un po’ particolare: io e Dan vivevamo insieme e Mark era alle prese coi suoi problemi di droga, quindi non è stato particolarmente presente. Comunque in generale è un disco che mi piace ancora oggi; poi ovviamente amo Superfuzz Bigmuff, perché è il nostro primo ed eravamo giovani e pieni di energia. Mi piace molto anche Tomorrow Hit Today, nonostante fosse uscito per una major che non l’ha promosso molto (fu il disco che chiuse il loro rapporto con la Reprise NDA). I due che abbiamo fatto uscire dopo di quello, effettivamente hanno alcuni difetti ma sono anche molto vari; in definitiva mi piace tutto quello che abbiamo fatto, non riesco ad indicarti un titolo che possa essere definito davvero il peggiore.
Non pensi che sia giunto il momento di pubblicare un nuovo album dal vivo? L’unico che a mio parere vi rappresenta alla perfezione, Live At El Sol, è del 2007.
A me personalmente piace molto anche Live in Europe, perché il nostro manager Bob De Witt, che è con noi ancora oggi e che hai conosciuto prima, ha registrato tutte le date e ha messo insieme quelle che riteneva le performance migliori, quindi mi sembra un un ottimo documento di quel tour. Ad ogni modo abbiamo fatto tanti dischi live, credo almeno cinque.
È vero, però quando ascolto un disco dal vivo mi piace ritrovarci l’intero concerto: Live in Europe in effetti è bello ma dura solo 38 minuti.
Sì, capisco quello che vuoi dire.
E invece il nuovo disco?
Inizieremo a pensarci alla fine dei tour che abbiamo in programma: c’è quello europeo da finire e poi a marzo andremo in Brasile e Argentina. A quel punto sarà il momento di sederci e di iniziare a pianificare qualcosa.
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Sul concerto non c’è molto da dire. Chi abbia visto i Mudhoney dal vivo anche solo una volta sa di che cosa siano capaci. Questa sera sono in forma smagliante e non fanno prigionieri, con una prestazione rabbiosa e tiratissima, inficiata solo dalla temperatura da altoforno che si respirava nel locale completamente imballato: loro non sembravano accorgersene ma per noi è stata piuttosto dura.
Mark Arm ha perso un po’ di potenza nella voce ma per il resto è in grande spolvero, così come gli altri tre, che hanno confermato quanto Steve mi aveva detto solo poche ore prima: sul palco se la godono ancora parecchio.
La scaletta non è incentrata sui classici del passato remoto, che pure non mancano. Una buona fetta del pubblico sembrerebbe conoscere solo quelli, a giudicare dai boati festosi che accolgono le varie “Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More”, “Get Into Yours”, “Suck You Dry”, “In ‘n’ Out of Grace” e, ovviamente, quella “Touch Me I’m Sick” che è ancora il manifesto di un’intera epoca. La band le suona tutte, ma ne tralascia parecchie altre (“You Got It” è forse l’assenza più pesante) per concentrarsi sui brani più recenti, che anche nella dimensione live rivelano tutta la loro qualità: “Move Under”, “Souvenir of my Trip”, “Oh Yeah”, “Paranoid Core”, non hanno davvero nulla da invidiare ai titoli più blasonati.
Si va avanti parecchio, quasi due ore, con un tiro e una potenza che il tempo che passa sembra non aver minimamente cancellato. Grandissima band, i Mudhoney. Vederli in azione serve a ricordarci che il successo non è tutto e che rimanere sullo sfondo, al netto della precarietà economica, spesso ripaga eccome.