I Not Moving pubblicano il 17 ottobre il loro disco That’s all, folks!, un disco rock di una bellezza e di un’immediatezza che arriva subito al cuore, di sicuro al mio. Dal primo ascolto alla voglia di parlare con il gruppo per saperne di più di quello che sembra essere l’ultimo atto del loro percorso artistico, il passo é breve ed eccomi al telefono con Antonio (Tony Face) Bacciocchi, batterista et Lilith Rita Oberti, voce del gruppo Not Moving. Ci fosse stato anche Dome La Muerte avremmo avuto tutto il gruppo per l’intervista e, in effetti sono molto emozionata perché mi trovo di fronte ad un gruppo che ha attraversato (e fatto) 50 anni di storia della musica in Italia.
Dopo diverse separazioni, scazzi, nuovi progetti, e dopo essere "usciti vivi dagli anni '80", per citare il libro di Antonio Bacciocchi, i Not Moving tornano con un nuovo bellissimo album dal titolo That’s all folks! ossia "é tutto, gente!". Si direbbe che si tratti dell’ultimo album, è cosi? Perché?
Antonio: Per raggiunto limite d’éta, perché ci siamo resi conto insieme che sul piano creativo avevamo dato un po’ tutto. Poi per carità, ognuno continuerà per conto suo, magari con delle collaborazioni in altri progetti, pero’ la storia dei Not Moving, che é iniziata nel 1981 con alti e bassi, gioie e problemi, piccole soddisfazioni e grandi delusioni, piccoli successi e grandi cadute era ora di chiuderlo.
In un periodo in cui il rock é diventato molto molto vecchio in cui ci sono gruppi di settantenni/ottantenni che continuano a suonare, altri che si riuniscono, noi facciamo la cosa opposta, ossia fermarci prima di arrivare troppo in là. L’abbiamo fatto con questo disco che secondo noi é ben riuscito anche perché raccoglie un po’ tutte le nostre influenze, le nostre radici. Rappresenta bene quello che stiamo suonando adesso e ci piace pensare che sia un suggello.
Siamo soddisfatti del disco e lo supporteremo con una serie di concerti: finché la salute e le forze ci reggono andiamo avanti e portiamo atermine la tournéé, dopodiché tranquillamente, consapevolmente e serenamente ci diremo ciao. Ovviamente continueremo a sentirci, soprattutto io e Rita, perché siamo sposati da un bel po’ di anni, magari con Domenico un po’ meno, ma resteremo sicuramente in contatto. Nel frattempo ti passo Rita.
Rita, ti faccio subito i complimenti per il vostro disco che é davvero spettacolare!
Rita: Grazie! Son contenta perché a me di solito i nostri dischi subito dopo l’uscita non fanno mai impazzire, invece questo qui mi piace molto, davvero. Col senno di poi arrivano i "avrei fatto qui avrei fatto là, avrei spostato questo e quello", ma in realtà mi piace così com'è.
Antonio mi diceva prima che in questo disco ci sono tutte le vostre influenze e in effetti la vostra musica é davvero piena di sfaccettature: siete legati al blues, al punk, al rock, garage, siete stati definiti i Cramps italiani, i Gun club italiani. Ma le definizioni per genere sono sempre o troppo restrittive o troppo diluite. Come la definiresti tu, la musica dei Not Moving?
Rita: Quando abbiamo cominciato a suonare, la nostra definizione era Psyco Billy. Perché c’era dentro tutto: a quei tempi si usavano questi termini: Psyco Billy, Rockabilly, Blues, Punk eccetera, ma Psyco Billy era bello perché c’era dentro sia la psichedelia sia lo "psyco" inteso come faccenda mentale e poi Billy, che per me é sempre stato un richiamo al rock n’roll.
Noi abbiamo quest’attitudine punk un po' per forza di cose, io nel 1980/81 quando ho iniziato avevo 16 anni ed ero nel pieno della ribellione, per me il punk era quell’immediatezza lì. Mi ero tagliata i capelli e me li tingevo con le tempere perché non avevamo le tinte, poi abbiamo scoperto una parrucchiera che ci faceva arrivare le tinte da Londra e quindi me li sono fatti verdi. Mi ricordo che mia nonna pagò la parrucchiera per farmi tornare come prima!
Al di là dell’aneddoto, la cosa bella era che tutti a quei tempi andavano a vedere tutto. Noi a Piacenza come punk o comunque "alternativi" eravamo 4 gatti, però quando c’era qualcosa, quando suonava qualcuno dal vivo in quei due o tre posti dove si poteva andare, ci si andava sempre tutti. Di solito suonavano sempre sti cavolo di gruppi prog, con le loro session lunghissime, per carità, bravissimi anche perché era quella la musica che girava. Poi abbiamo messo su il gruppo e abbiamo chiesto ad uno di questi locali di farci suonare e lì c’eravamo definiti "sun glasses after dark, psyco billy". Ecco la nostra prima definizione dei Not Moving!
Poi ce ne hanno affibbiate di tutti i colori, c’hanno messo dentro la scena psichedelica, anche se noi non siamo mai stati totalmente psichedelici. Non eravamo nemmeno garage, perché quando il garage é arrivato in Italia noi eravamo già passati ad altro: noi aprivamo i concerti con "Pipe line" nel 1982, in Italia il garage é arrivato nel 1984/85. Eravamo fuori anche dal punk perché si, c’era l’attitudine, ma poi noi magari durante un concerto suonavamo una cover dei Doors. Insomma, non saprei definire i Not Moving: siamo tutto e niente, siamo sempre stati un mischione di blues soul, fuzz, punk, ci piace rompere i canoni.
Antonio, come ti dicevo ho appena finito di leggere il tuo libro Uscito vivo dagli anni 80, anche se é stato pubblicato agli inizi del 2000, un libro che é un’analisi lucida, ironica e divertente dell’universo musicale di quegli anni. Tu dici che rifaresti tutto di quell’helter skelter fisico ed emotivo, anzi, che non hai proprio mai smesso. Ma quindi (domanda) come sei uscito dalla centrifuga degli anni 2000? Vivo e vegeto, vivo ma ferito, in coma?
Antonio: Mah, direi che sono vivo e vegeto perché sono sempre stato una persona molto curiosa in ambito musicale, per cui ascolto tutto quello che arriva di nuovo, anche il rap, la trap, il grime, anche se sono generi lontanissimi dai miei gusti musicali. Lo faccio perché ho bisogno di capire dove va la musica e cosa ascoltano i giovani al giorno d’oggi, anche se é un mondo che non mi appartiene e finisco sempre per tornare verso la musica soul, il beat degli anni 60, il rock, il punk.
E’ molto interessante quello che sta succedendo, perché abbiamo modalità d’espressione completamente diverse che però sono l’espressione di un’urgenza simile a quella che ha spinto noi, i Not Moving, a cominciare a suonare come ad esempio la ricerca di un’identità personale.
Quando sei giovane cerchi di capire chi sei, l’immedesimazione nella musica, in una sottocultura, un abito, un’estetica, sono tappe di questo processo. Poi, leggendo libri e interviste a rapper e trapper, vedo che spesso noi "anziani" li demonizziamo perché non capiamo il loro messaggio, perché siamo diversi, ma in realtà anche loro, come noi, cercano attraverso la musica un modo per esprimersi. Se fossimo piu’ attenti, vedremmo che descrivono delle situazioni difficili nelle periferie e in altri ambiti per cui l’utilizzo di certe frasi, sicuramente discutibili, è comunque funzionale alla realtà. Nemmeno Caravaggio piaceva quando dipingeva i suoi quadri realisti, perché la realtà che dipingeva era troppo cruda. Eppure, scusatemi il paragone tra Caravaggio e i trappers, ma Caravaggio è stato un punk ante litteram.
Visto che stiamo parlando dei giorni d’oggi, cosa ne pensi dell’intelligenza artificiale applicata all’ambito creativo e alla musica?
Antonio: Tutte le novità tecnologiche all’inizio vengono demonizzate ma é anche vero che tutte le novità tecnologiche all’inizio sono utilizzate in modo scomposto. In realtà dietro c’é sempre la mente e la mano dell’uomo: se vuoi programmare una canzone con l’IA deve esserci comunque un input, ossia un essere umano che dice "questa canzone la voglio stile Beatles", piuttosto che qualcos’altro. I primi risultati in ambito musicale non mi sembrano molto incoraggianti, ma è la stessa cosa che si diceva quando sono arrivati i sintetizzatori che riproducevano i suoni degli strumenti originali. Un synth che rifà il violino? No, non esiste! Invece ancora oggi ci sono sia il synth che il violino, i due coesistono.
Alla fine l’arte non si manifesta attraverso il mezzo che utilizzi per comporre, ma attraverso quello che proponi. Per secoli hanno scritto libri con la piuma d’oca, poi con la biro, oggi con il computer e il correttore automatico, ma il contenuto del libro non è cambiato. Lo studio di registrazione è stato per anni un mezzo: si andava li e si registrava quello che si suonava. Poi gruppi come i Beatles e altri hanno capito che lo studio di registrazione era un mezzo e lo hanno utilizzato per migliorare la musica facendo sovraincisioni, sovrapposizioni, tagliando i nastri, mettendo degli echi ecc. L’Intelligenza artificiale, se non ne se abusa, può essere un altro strumento con cui fare musica e arte in generale.
Ho letto da qualche parte una tua frase che dice, cito: "Il rock ci ha salvato la vita, ma abbiamo pagato un prezzo altissimo". Potresti spiegarmi meglio?
Antonio: Per suonare in questo gruppo e in altri gruppi abbiamo rinunciato ai nostri lavori perché per noi suonare è diventato una missione, una religione, la priorità assoluta su tutto. Io ero alla facoltà di farmacia, Rita era una stilista valente che avrebbe dovuto lavorare a Milano e fare studi stilistici, mentre Dome sarebbe dovuto diventare odontotecnico. Eh niente, quando abbiamo deciso che la musica era la nostra priorità, ci siamo letteralmente massacrati girando su e giu per l’Europa, (io anche negli Stati Uniti), sempre su furgoni scomodissimi e tornando a casa distrutti alle 6 del mattino.
Arrivati ad una certa età tutti questi sforzi li senti sia sul piano fisico che sul piano morale, nel senso che quando componi una nuova canzone ci pensi per giorni interi, settimane, diventa la tua ossessione. Quando devi salire sul palco pensi a come suonerai, come ti vestirai, come andrà, come non andrà e poi, una volta fatto, pensi a cosa hai sbagliato, a come avrebbe potuto essere. Poi pensi a nuovo disco, pensi alle interviste, a Barbara: "oddio avro’ detto delle puttanate?". Quel che voglio dire è che da una parte la musica diventa il tuo lavoro, dall’altra diventa un’ossessione e tutto questo lo paghi.
Pero vi ha salvato la vita, c’é anche questo nella frase in questione.
Antonio: Si, c’ha salvato la vita perché in quegli anni in Italia c’era il terrorismo. Il desiderio di partecipare a questa pseudo rivoluzione avrebbe potuto diventare reale, si era circondati da tanta gente che lo faceva, e poi, non dimentichiamoci che in Italia in quel periodo arrivò l’eroina che distrusse due o tre generazioni. Suonare e portare avanti questa missione ci ha aiutati a restare alla larga da tutto ciò, perché noi quello volevamo, non avevamo tempo per le cose che avrebbero potuto sviarci dalla nostra missione per conto di Dio o Manitu’.
Inoltre, siamo stati lontani anche da una vita "normale" che a volte a 60 anni, 64 nel mio caso, finisci per rimpiangere "ah se fossi stato…avrei potuto…". Noi volevamo fare questo, volevamo suonare, volevamo essere degli interpreti del rock, volevamo suonare con i Clash e l’abbiamo fatto, volevamo conoscere Johnny Thunders e l’abbiamo fatto, così come anche Iggy Pop e gli Stooges, insomma abbiamo realizzato i nostri sogni.
Non abbiamo mai avuto successo perché non ci ha mai interessato averne, abbiamo rifiutato un sacco di proposte e di occasioni e certo sarebbe stato bello essere i nuovi Nirvana o i Rolling Stones. Non é successo, però che bello é stato! Io sono contentssimo di averlo fatto e, come dico sempre, lo rifarei tutto d'accapo, anche dormire sui pavimenti, mangiare da schifo, suonare nei centri sociali senza corrente.
I Not Moving sono molto apprezzati anche per il fatto di non essere mai scesi a compromessi e per aver sempre mantenuto la loro coerenza. Coerenza a cosa, e quale prezzo avete pagato?
Rita: In Italia a metà degli anni '80 c’era questa rivendicazione che si doveva cantare in italiano. Tanti gruppi, soprattutto della scena fiorentina, tipo i Litfiba, Neon, Diaframma (loro forse l’hanno sempre fatto) hanno preso questa direzione per quanto riguarda il cantato. A noi è stato proposto di cantare in italiano ma abbiamo rifiutato anche perché il cantato in inglese corrisponde ai miei gusti musicali, è legato alla musica che ci ha fatto crescere, quella che ci piace. Dicendo no, ci siamo già tagliati via una prima fetta. Certo, da qualcuno è stato apprezzato, ma dai molti no, nel senso che siamo ritrovati tagliati fuori da un certo giro.
Col passare del tempo tutto si é ammorbidito, non tanto i suoni quanto i contenuti. Noi eravamo partiti con la storia degli indiani d’America e l’abbiamo portata avanti fino allo sfinimento. Abbiamo dedicato un disco a Silvia Baraldini, al popolo Palestinese ante litteram, ma queste cose non fanno "audience". Dall’82 in poi abbiamo sempre dedicato i nostri dischi ad una popolazione del terzo, quarto, quinto mondo, ma in Italia c’era un gran casino, c’era tutto da fare e questa cosa ancora una volta piaceva solo a pochi.
Poi di contro, non ci voleva il mainstream ma non ci volevano nemmeno i centri sociali: prima di tutto perché non cantavamo in italiano e quindi non si capiva il messaggio, anche se poi vedevi sui palchi dei centri sociali gruppi punk e hardcore punk che cantavano ma non si capiva una minchia di quello che dicevano. Non andavamo bene anche perché "eravamo belli", questo ce l’ha detto un tipo del Virus mi pare, non facce belle, ma gente con una certa figura un’immagine, un’estetica bella: eravamo tutti alti, due donne nel gruppo, minigonne e insomma, non andava bene.
Anche noi, come gli altri eravamo "contro", ma non lo gridavamo, per noi parlava la musica, non ce lo tatuavamo sulla pelle, non avevamo bandiere, non lo scrivevamo sui dischi e questo non andava bene. Io ho litigato con un sacco di gente nella mia vita però noi ci siamo ancora e loro no, sai, alcuni di quelli che sembrava avessero loro in mano la palla, adesso sono diventati avvocati o altro, e quindi la palla l’han persa e soprattutto hanno sbagliato cavallo.
Un’ultima domanda: sicuramente in questo momento, dopo la pubblicazione del vostro ultimo album, siete sotto le luci della ribalta e di certo i giornalisti non brillano per originalità quando vi intervistano, me inclusa ovviamente. Quale sarebbe la domanda a cui vorresti rispondere?
Rita: Come abbiamo fatto a fare questo disco. In effetti noi facciamo i dischi a distanza perché Domenico è di Pisa, mentre io e Antonio abitiamo nella campagna piacentina ed è quindi difficile vedersi come invece dovrebbe fare un gruppo. Quando eravamo giovani ci vedevamo più spesso e provavamo giorno e notte in posti improbabili (anche in una cella frigorifera!). Adesso è un po' più difficile, per cui lo facciamo a distanza: di solito Domenico mi manda dei riff di chitarra, io il più delle volte dico: "No, ma questo mi fa cagare", poi invece mi metto lì, cerco di trovare un cantato. Poi ci ritroviamo, facciamo il punto con la chitarra acustica (un po' alla Jagger/Richards!).
La genesi di un disco è quindi molto importante, perche noi siamo quel genere di gruppo che prova due/tre volte l’anno, si massacra di prove, tipo 10 ore al giorno per tre giorni e poi partiamo, andiamo a suonare e non proviamo più. Da lì in poi tutto quello che si modifica è conseguenza dei concerti dal vivo. Perché durante i concerti capisci cosa funziona e cosa no. Questo è molto bello, perché è un processo creativo continuo. Ho cantato in un altro gruppo nel 2000, dove si provava una volta alla settimana; io francamente ne avevo due palle così di provare ogni settimana la scaletta. Non sopporto i gruppi che stanno mesi in sala prove per poi fare un concerto nel bar sotto casa, preferisco fare meno prove e andare sul palco allo sbaraglio, il più possibile lontano da chi ci conosce, e capire cosa funziona e cosa va cambiato. Per me il palco è la sala prove. Se vedi uno in prima fila che sbadiglia, vuol dire che quel pezzo lì lo devi mettere in un altro punto della scaletta.
E da quel punto di vista penso possiate ritenervi soddisfatti, perché state per iniziare una bella tournée di supporto all’uscita del disco. Spero di poter assistere ad uno dei vostri concerti il più presto possibile. Per il momento vi ringrazio tantissimo per la disponibilità e per la bellezza della vostra musica.
Questa intervista telefonica con brani estratti dall’album That’s all, folks! verrà trasmessa (ahimé con traduzione francese) su Radio Zinzine, venerdi 21/11 alle h. 10.30 (https://radiozinzine.org)
La versione italiana potrete ascoltarla su Mikroradio: https://www.mikroradio.it

