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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
12/01/2018
Il disco sbagliato
E la frenesia da Internet
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Mi succede sempre più spesso.

I dischi più remoti, sconosciuti, lontani, sono spesso fraintesi dai database aggiornati.

Così capita che mentre credi di avere acquistato Katmandu, album di tetro progressive tastieristico, direttamente dai profondi anni ’70,  hai invece comperato Katmandü, con tanto di onnivoro umlaut in extremis, così tanto per darsi un’aria da super-macho su una decappottabile in sosta vietata.

E se la copertina, sul fronte, potrebbe anche ispirare fiducia sessantottina, tra le fiamme di una simil-divinità hawaiana, ecco che la foto sul retro non lascia spazio per dubbi: ragazzini sbarbati, pettinati, treccine, visi rotondi, ottima alimentazione, borghesia media, discreta istruzione. Los Angeles tutta la vita, ci metterei la mano sul fuoco. L’espressione corrucciata di chi non ha certo quella rabbia viscerale dentro, piuttosto il broncio del surfista che si aspettava il sole e invece si ritrova la pioggia. Sarà per il prossimo week-end, Billy!

Anno 1991, Epic, CD. Non certo il vinile del 1971 della Mainstream Records.

Ma ormai il danno è fatto. E allora tanto vale capire di che roba si tratta.

Ma è ovvio, al primo accordo.

“Da grande sarò Slash!!” “Io Axl!” O alla peggio Steven Tyler…

Piena apoteosi hair metal, riffoni che scrosciano come i bei boccoloni biondi di qualche reduce da culle NWOBHM; vocine in falsetto che nemmeno Geddy Lee. Produzione levigata, cerchi in lega e portiere cromate.

Titoli come “The Way You Make Me Feel” o addirittura “Heart & Soul” e “Love Hurts”! Nessun ritegno, eh?

Tutti messi a memoria da cento ascolti di Def Leppard, Diamond Head, Saxon fino ai “colleghi” Poison, Ratt, W.A.S.P. e gli ultimi gloriosi, eroici Cinderella di “Don't Know What You Got”.

Ritornelli assai gradevoli, testi come “I believe in loveeee!!!” e vacuità simili.

Ma che bravi ‘sti ragazzi. Anzi, bisogna poi essere onesti, il disco è niente male, ci sono un paio di pezzi addirittura belli; tutto fila via liscio, si ascolta volentieri. Buonumore.

Eppure, è veramente il disco sbagliato.

I ragazzi sono arrivati lunghi.

Ma davvero qualcuno aveva ancora bisogno di patinature metal nel 1991?

La Guerra del Golfo ha appena lasciato la sua lunga coda di sangue e profughi; uno scamiciato Neil Young, su Weld, davanti al solito muro di Marshall, suona una “Blowin’ In The Wind” che rimbomba come un requiem al decennio del benessere. Cobain pubblica Nevermind. E Stradlin, ragazzi, è appena uscito dal gruppo. Fuori! Decretando, di fatto, la fine di ogni revival positivista-sessista-yuppie nel rock “Made on Pacific Coast”.

Per non parlare del fatto che i Led Zeppelin sono un ricordo lontanissimo, perfino in pezzi melensi come “Sometimes Again”.

Eppure c’è tutto il piccolo fascino di una reliquia nuovissima. Appena trascorsa, eppure già dimenticata sotto caterve di lugubri distorsioni grunge e stoner. E sì che se uno va a vedere la carta di identità dei musicisti… mica erano degli sprovveduti, questi. Dave King, cantante, aveva passato una vita coi Fastway dell’ex mothorhead "Fast" Eddie Clarke. Il chitarrista Mandy Meyer era già imbarcato in Asia (Asia!) e Krokus, mentre la sezione ritmica era veterana di tante battaglie west-cost.

Puri capelloni (pettinatissimi) losangeliani. Belli fuori, belli dentro. Poveri tutt’attorno.

Vacui, inutili; sorrisi da copertina, look da ganzi fintamente mistici. Plastica californiana. Di ottima qualità. Ma sempre ultra siliconata, quando la vedi da vicino.

Il loro debutto fu un fallimento, talmente impegnati a citare i maestri da non rendersi conto di frammentarsi in mille plagi senz’anima. Talmente fieri della loro sfavillante post-produzione da non accorgersi che il mondo stava rapidamente cambiando.

E ora tanta eccellente inutilità sta qui accanto al mio computer, sulla cima di una pila che comprende Rollins Band, Dust, Poobah, Blue Oyster Cult, Amon Duul II.

Si sentirà fuori posto?

Un frammento isolato di ottimismo fuori luogo già allora; ora un reperto che sembra di un mondo che nulla ha a che fare con questi strazianti anni ’10 del nuovo millennio.

Un bellissimo album. Clamorosamente sbagliato.

P.S. E "quell’altro" Katmandu?

Chi lo sa, magari un giorno pescherò il pesce giusto. Per ora resta il gusto di pensare che sarà certamente il miglior album sconosciuto del 1971. Fino alla prossima smentita.