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REVIEWSLE RECENSIONI
08/05/2018
A Perfect Circle
Eat the Elephant
Ascoltando “Eat the Elephant” si ha la netta impressione di avere a che fare con un lavoro che è già un classico, un album senza un apparente punto debole, scritto e inciso da una band in stato di grazia. Come la parabola indiana alla quale si riferisce il titolo del disco, ognuna delle dodici canzoni è una parte fondamentale dell’insieme: può essere presa singolarmente, ma il suo potere aumenta esponenzialmente se inserita nel suo contesto d’appartenenza.

A voler essere maligni, si potrebbe pensare che Maynard James Keenan non sappia scegliersi i giusti collaboratori, per lo meno sotto l’aspetto della prolificità. Se dei Tool si sta aspettando il seguito di 10,000 Days da ben dodici anni, per un nuovo album degli A Perfect Circle si è dovuto attendere ancora di più, dal momento che eMOTIVe, ultima prova in studio del progetto che vede Keenan unire le forze con Billy Howerdel, risale al 2004. E se per il prolungato silenzio dei Tool, stando allo stesso Maynard, si deve dare la colpa all’eccesso di aspettative che un poco alla volta ha paralizzato i suoi compagni di band, costretti dal culto che li circonda a dover per forza di cose partorire l’ennesimo capolavoro, il motivo del lungo silenzio degli A Perfect Circle è da ricercare nella volontà da parte di Billy Howerdel di incanalare in una nuova dimensione la sua creatività, espressa in tutto il suo potenziale prima in Mer de Noms e Thirteenth Step e poi anche nel suo progetto solista Ashes Divide, il cui per ora unico disco Keep Telling Myself It’s Alright è  in tutto e per tutto un album apocrifo degli A Perfect Circle.

Nel 2018, uno iato di quattordici anni equivale a una vera e propria era geologica. Sono cambiati i modi di pubblicare e fruire la musica, nella vita di tutti i giorni la tecnologia ha assunto un ruolo sempre più rilevante ed è mutato l’assetto politico. Alla Casa Bianca c’è sempre un repubblicano, è vero, ma se eMOTIVe era figlio dell’amministrazione di Bush jr., ammantato com’era dagli spettri della guerra in Iraq e da una sensazione di apocalisse prossima ventura, Eat the Elephant è la perfetta fotografia dei primi diciotto mesi della presidenza di Trump: un proliferare di fake news, scandali e un’atmosfera distopica degna di una puntata di Black Mirror.

Aiutati per la prima volta da un produttore esterno (Dave Sardy, già al lavoro con Marylin Manson, Slayer, Oasis e LCD Soundsystem), Billy Howerdel e Maynard James Keenan in Eat the Elephant fanno tutto da soli, rinunciando praticamente a ogni contributo da parte degli altri membri del gruppo (Matt McJunkins e Jeff Friedl fanno una comparsata in un paio di tracce, mentre James Iha è del tutto assente). Il risultato è una versione più matura degli A Perfect Circle, frutto di un’attenta operazione di decostruzione dei quell’intrigante mix di Cure, Nine Inch Nails e Depeche Mode che è il marchio di fabbrica della band, riplasmato e aggiornato secondo una nuova sensibilità che tiene conto sia delle sperimentazioni vocali di Maynard con i Puscifer sia dell’esperienza di Billy come compositore di colonne sonore. Il suono del gruppo si fa quindi più etereo e malinconico e le chitarre vengono accantonate in favore del pianoforte, di una leggera patina di elettronica e, in alcuni momenti, di una vera e propria orchestra. Il trittico iniziale “Eat the Elephant”, “Disillusioned” e “The Contrarian” è sostanzialmente costruito tutto secondo questo schema, tanto che bisogna attendere “The Doomed” per ascoltare il primo riff di chitarra e riassaporare compiutamente l’assalto brutale degli A Perfect Circle di Mer de Noms. E quando l’ascoltatore pensa che la sua pazienza sia stata ripagata, Howerdel e Keenan lo spiazzano con “So Long, and Thanks for All the Fish”, un pezzo Power Rock che prende il titolo da un romanzo di Douglas Adams. “TalkTalk” e “By and Down the River” riportano il gruppo dalle parti di Thirteenth Step, prima di lanciarlo ancora una volta in territori inesplorati: “DLB” è uno strumentale Ambient che sembra uscito da Ghosts I-IVdei Nine Inch Nails; “Hourglass” è un ibrido dove le chitarre Industrial del primo Marylin Manson sposano un ritornello nel quale Maynard va giù pesante con il vocoder; e “Get the Lead Out” ha un beat Hip-Hop, una scratch di UZ e più di un debito con i Radiohead di Kid A.

Ascoltando Eat the Elephant si ha la netta impressione di avere a che fare con un lavoro che è già un classico, un album senza un apparente punto debole, scritto e inciso da una band in stato di grazia. Come la parabola indiana alla quale si riferisce il titolo del disco, ognuna delle dodici canzoni è una parte fondamentale dell’insieme: può essere presa singolarmente ma il suo potere aumenta esponenzialmente se inserita nel suo contesto d’appartenenza. Dopo quattordici anni, Maynard James Keenan e Billy Howerdel riportano in vita gli A Perfect Circle e alzano l’asticella. In un periodo in cui il Rock non gode di ottima salute, è facile farsi sedurre dalle mode del momento e dai giochi di prestigio a buon mercato. Ma quando scendono in campo i campioni, la differenza si sente e non ce n’è per nessuno.