Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
REVIEWSLE RECENSIONI
15/09/2022
Charlie Gabriel
Eighty Nine
Ottantanove anni e non sentirli, anzi rinascere musicalmente e pubblicare il primo album solista, dopo una vita dietro alle quinte della scena jazz, dagli esordi con Lionel Hampton e Charles Mingus alla storica, amata, intramontabile, onnipresente Preservation Hall Jazz Band, di cui è ancora membro.

Niente è più feroce e devastante della morte, e questo Charlie Gabriel lo sa bene, seppure, invecchiando, sembrerebbe possibile abituarsi a tale evento. Ma niente è più potente della vita, poiché ogni giorno è diverso dall’altro e offre occasione di riscatto. Così pure una tragedia come perdere, durante lo scorso inverno, l’ultimo fratello vivente, si trasforma in qualcosa di fortemente spirituale, porta a riflettere, a chiedersi se dopo tanto buio sia possibile rivedere la luce. Il primo istinto sarebbe quello di abbandonare tutto, posare per sempre l’amato sassofono, sacra fonte di abbeveraggio per l’intera esistenza (il primo ingaggio professionale per Charlie risale al 1943, quando aveva poco più di dieci anni) e perdersi tra pianti e ostinato sconforto. Poi, però, subentra la voglia di non mollare, si apre uno spiraglio grazie a un’altra passione, che funge da salvavita in questo mondo già brutto e difficile e che la pandemia ha ridotto a brandelli: l’artista gioca a scacchi quotidianamente nella cucina dello studio di Ben Jaffe, contrabbassista, polistrumentista e direttore creativo (nonché figlio del compianto membro storico Allan), dell’epica Preservation Hall Jazz Band, vivace ensemble di New Orleans tuttora in attività e di cui Gabriel fa parte dal 2006. E qui scatta la scintilla.

Un pomeriggio il musicista Joshua Starkman assiste divertito alle partite, seduto a strimpellare la chitarra in un angolo, e a guardare Charlie e Ben da lontano, mentre studiano con attenzione le mosse per avere la meglio sull’avversario nel gioco. Quelle note in sottofondo, tra un alfiere “mangiato” e uno stallo inaspettato, contribuiscono a costruire il miracolo.

Il mattino seguente il pregiato sassofonista porta con sé il suo strumento, forse solamente per tentare di riappropriarsi di ciò che rappresenta la sua essenza e da quel momento tutto cambia. Si sente semplicemente ispirato a provare, le mani scorrono fluide sui tasti durante le soffiate e, in un batter d’occhio, lo scenario muta, iniziano le sessioni per Eighty Nine, registrate principalmente proprio lì, in una cucina di New Orleans, dall’ingegnere del suono Matt Aguiluz.

 

“Oltre al sax tenore ho portato il clarinetto, il mio primo amore, e alla fine compare anch’esso in molti pezzi. Non avevamo un piano particolare, né un'idea ben definita di quello che avremmo prodotto. Ma ci divertivamo a fare jamming, ad avere una conversazione musicale. Le conversazioni di tal tipo annullano le complicazioni".

 

Libertà, curiosità e forte desiderio di tornare ad alzare gli occhi al cielo portano a incidere otto pezzi intriganti, mai sfumati al termine, quasi fossero eseguiti sempre dal vivo, morbidi, pieni di calore, taluni rasserenati dalla voce calda e coinvolgente del protagonista, per la prima volta calatosi anche in questi panni. Il canto di Charlie emerge divertito in tre brani. Due sono vecchi standard riproposti con un’interpretazione impeccabile, che simboleggia la voglia di ricominciare a suonare: "I’m Confessin’", impreziosito da un toccante clarinetto, è un classico dei classici di cui si ricorda con nostalgia e piacere una romantica rilettura di "Peggy Lee" e una straripante versione di Thelonius Monk, mentre la vivace "I Get Jealous", presente nel repertorio di Luis Armstrong, è la degna chiusura del disco, con la batteria che aumenta il ritmo durante gli ampi assoli di sax del Nostro.

"The Darker It Gets", invece, è uno scoppiettante motivo dalla melodia semplice e dal testo metaforico, “Più si fa scuro, più vedo meglio quel posto nascosto dentro di me”.  Il cuore si stringe a pensare agli ottantanove anni di questo gigante del jazz, di nuovo appassionato alle sette note, alla vita!

Sicuramente si rimane irretiti, poi, ad ascoltare le azzeccate rivisitazioni di altre canzoni celebri come la nostalgica "Memories of You", l’epica "Chelsea Bridge" di Billy Strayhorn e Duke Ellington, la popolare "Three Little Words", insaporita da un insolito latin feel per questa raccolta, incisa anche da Ella Fitzgerald, John Coltrane e Stan Gets fra i tanti, e soprattutto "Stardust", davvero commovente.

Ascoltando la bellissima "Yellow Moon", però, si ha l’impressione che se si fosse insistito un poco maggiormente sulle composizioni autografe si sarebbe raggiunto un risultato ancor più soddisfacente. I fan più attenti della Preservation Hall Jazz Band riconosceranno subito questo pezzo, inizialmente apparso, insieme proprio a "The Darker It Gets", sulla prima pubblicazione di materiale originale del gruppo nel 2013, intitolata That's It. "Yellow Moon" è la perla nascosta dell’opera, con quel sassofono avvolgente a ricamare intriganti armonie a tratti ammiccanti al cha cha cha, e chitarra e percussioni a contornarle. Scritta da Gabriel e Jaffe ha tutti i crismi per entrare a far parte dei classici (moderni) del genere; dimostra l’incredibile scioltezza, la profonda conoscenza musicale di quest’uomo dalla mente assorbente come quella di un bambino, pur avendo scelto di sottolineare la sua età fin dal titolo del disco.

 

“Gabriel ha conservato nella sua memoria una quantità straordinaria di storia del jazz e questo non finisce mai di stupirmi. Posso mettere su Coleman Hawkins, Ben Webster, e in seguito Lester Young, e Charlie riconosce ogni nota di ogni assolo di ogni composizione. Probabilmente è uno degli ultimi musicisti viventi che ha incontrato quelle persone e conosce il loro suono. Oggi bisogna essere quasi un esperto o uno storico per capire la differenza tra loro, e per Charlie... non appena li sente, canticchia la canzone".

 

Le parole di Ben Jaffe definiscono perfettamente il tesoro che giace in “Mister Charlie”, appellativo con cui lo chiamano gli ammiratori di tutto il mondo; è l'incarnazione vivente della tradizione jazzistica. È il quarto di sei generazioni di Gabriel (tre prima di lui e due dopo) a suonare a New Orleans. E ha condiviso il palco con leggende del calibro di Lionel Hampton, Aretha Franklin e Tony Bennett.

La particolarità di Eighty Nine nasce proprio dall’interezza delle esperienze vissute, che si snodano nelle tracce dell’album. Vi è, peraltro, un ulteriore elemento che lo rende interessante e degno di entrare nella collezione degli amanti del genere e non solo, ma anche degli appassionati onnivori di musica: quell’atmosfera di intimità, quasi da post-concerto, in cui una manciata di artisti sono seduti in un angolo, mentre tutti gli altri stanno uscendo, e si rilassano eseguendo alcuni vecchi brani preferiti, improvvisando nuovi motivi. Senza nessun altro fine o proposito. Unicamente e semplicemente perché ne hanno una dannata voglia, perché questa è la loro vita, la loro anima, il loro spirito.