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REVIEWSLE RECENSIONI
19/02/2020
Marcus King
El Dorado
Un nuovo inzio per Marcus King, che abbandonata la vecchia band, si affida alla produzione di Dan Auerbach e inanella un filotto di ballate da urlo.

Di anni ne ha soli ventitre, ma Marcus King ha già alle spalle tante esperienze da sembrare quasi un veterano. Tre dischi sotto l’egida Marcus King Band, tutti bellissimi e molto apprezzati dalla critica, e il picco di notorietà, arrivato quando si è trovato a condividere il palco con la Tedeschi Trucks Band. Insomma, sei anni vissuti intensamente che l’hanno portato a essere considerato qualcosa in più di una semplice promessa, ma un musicista affidabile e tecnicamente validissimo chiamato a dare nuova lucentezza a un genere che ha radici lontane nel tempo.

Eppure, questo disco, pubblicato solo a suo nome, suona quasi come un nuovo inizio. E non è un caso che, per questa decisiva svolta alla propria carriera, il giovane chitarrista si sia fatto affiancare, in veste di produttore, da una vecchia volpe come Dan Auerbach. Il quale, come aveva fatto lo scorso anno per il chiacchierato esordio di Yola, incide sulla resa finale in modo decisivo.

Accantonata la vecchia band di King, Auerbach apre le porte dei leggendari American Sound Studio di Memphis e affianca al giovane rocker un pugno di veterani, che in passato hanno suonato per icone quali Elvis Presley e Dusty Springfield. Oltre a suonare basso e chitarra, Auerbach, poi, dà un tocco immediatamente riconoscibile al suono: lo sgrezza da ogni asperità, gestisce con intelligenza i richiami vintage, rispetta la tradizione di un genere, ma lo attualizza con una appetibile patina mainstream.

Che qualcosa sia cambiato, che l’approccio boogie e grintoso degli album precedenti sia divenuto un’eventualità e non un costante, lo si capisce fin dall’apertura di Young Man’s Dream: chitarra acustica, melodia dolcissima, echi di Neil Young e la voce calda e graffiante di King a raccontare una storia di vita vera emotivamente coinvolgente.

La vecchia strada non è stata, però, completamente abbandonata: brani come The Well (con quel suono di chitarra che è nel dna di Auerbach) o Say You Will (qualcuno ha detto ZZ Top?) richiamano il passato della Marcus King Band, ma, seppur validi, sembrano inseriti solo per bilanciare il morbido velluto di un disco composto soprattutto di ballate.

Il dolce e intenso country soul di Love Song (bella da perdere i sensi), le atmosfere r’n’b di Wildflowers & Wine (cantata con la foto di Otis Redding nel taschino della giacca) e Beatiful Stranger, ballata southern col cuore in mano, rappresentano al meglio la forma e la sostanza del nuovo corso. Insomma, King ha proprio cambiato il suo modo di concepire le canzoni, tiene nascosta la forza della sua scintillante chitarra, dosando gli assoli e riducendoli al minimo indispensabile, e si concentra invece sul cantato, mai così espressivo come in questo disco.

Disco che si chiude con la memorabile No Pain, ennesima ballata, avvolta da fumose volute jazz, con cui il giovane songwriter afferma la sua voglia di convogliare il proprio talento in territori meno burrascosi e più raffinati. Operazione riuscita completamente: pur non disdegnando il notevole passato di King e i bei dischi lasciati alle spalle, El Dorado è di un altro livello, per capacità espressiva e qualità del songwriting. Senza dubbio, il suo album migliore.


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