“Sometimes you make me feel like I’m living at the edge of the World”
The Cure - Plainsong (1989)
Incipit.
Werner Herzog Encounters at the end of the world.
Questo titolo di un film di Werner Herzog potrebbe essere preso a commento di tutta la sua poetica, tesa ad esplorare il raggiungimento e superamento del limite. Nel film di cui raccontiamo il breve ma potente incipit, è un uomo che si mette alla prova per tentare di superarsi: un intagliatore, abile sciatore nel salto da trampolino. L’estasi dell’intagliatore Steiner: mai come in questo film, la ripetizione è segno di un’ossessione, di un’estasi: ex-stare. Fuori, oltre.
Un salto, una caduta, un altro salto, un’altra caduta. Una sorta di rivisitazione del Mito di Sisifo in un mondo senza dei. Forse è in questo tentativo, in questa volontà di potenza nell’ostinazione, che l’incontro/scontro non può che avvenire con la Natura. L’immobilità del gesto nella ricerca della perfezione, contro il freddo e il vento che si frappongono a fermare il saltatore, sono il segno di una spinta interiore per cui dopo un rovinoso impatto (senza casco protettivo) non ci si ferma, ma ci si inoltra nel bosco per valutare se continuare la sfida. Herzog appare lì, nel punto della caduta, teso a capire cosa muova una persona al punto da rischiare la propria vita; lui stesso, infatti, venuto a sapere della malattia dell’amica critica cinematografica e poetessa Lotte Eisner, deciderà di intraprendere un viaggio al limite, a rischio di sfinimento. Da Monaco di Baviera a Parigi, a piedi e munito di sacca, convinto che grazie a questo pellegrinaggio, questo sacrificio, l’amica sarebbe sopravvissuta.
Folle? Beh, sentite allora cosa sostiene il regista tedesco al punto 7 della dichiarazione del Minnesota, pronunciata nel 1999 (1), giusto al termine del secolo della nascita del Cinema e al giro di boa di un millennio:
“Il turismo è peccato, viaggiare a piedi è virtù”.
Meglio dire, allora, un Parsifal, un puro-folle. Ne abbiamo bisogno più che mal.
Per salvarci.