Ma questa è solo una metafora: il significato letterale di un titolo del genere, almeno nella versione che gli hanno dato i Foals, è che se andiamo avanti così, per la razza umana potrebbe anche non esserci un futuro. Lo racconta eloquentemente l’affascinante copertina (non so se l’avete notato, ma in un’epoca in cui il progressivo abbrutimento grafico delle nuove uscite è stato messo più volte a tema, c’è ancora qualcuno che è in grado di fare cose di livello), con quella villa elegante invasa dalla foresta. La rivincita della natura? Possiamo avere anche tutte le ragioni per esserne contenti, se non fosse che, come in quel romanzo di Houellebecq che tanto spesso viene citato negli ultimi tempi, questo significherebbe dover gentilmente togliere il disturbo.
Non è questo il tema, però. Se ne stiamo parlando è solo perché i Foals, nella loro ultima fatica discografica, hanno deciso di giocare proprio con queste suggestioni. Un disco doppio (la seconda parte uscirà quest’autunno) per provare a vedere se, dopo dieci anni di carriera e quattro album pubblicati, la band di Oxford sia ancora in grado di dire qualcosa di nuovo. C’è un problema, secondo me, con i Foals. O meglio, ce l’ha la gente che li ascolta. Difficile infatti trovare un gruppo più odiato o comunque bistrattato nel panorama internazionale. Certo, hanno la loro fanbase, ogni volta che suonano il pubblico accorre numeroso; eppure, per lo meno in quegli ambienti che godono nel definirsi “colti” musicalmente, parlare dei Foals equivale a parlare di qualcosa di banale, superficiale e poco raffinato. Non voglio indagare sui motivi di tale spocchioso distacco ma ho idea che l’enorme successo che hanno iniziato a conseguire a partire da “Holy Fire”, frutto in parte di uno snellimento e di una parziale “commercializzazione” del proprio sound, abbia giocato parecchio in questo senso.
Sinceramente mi interessa poco. A mio parere si tratta di una band interessante, dal vivo sono grandiosi per cui non vedo dove stia il problema.
Con questo disco, comunque, erano chiamati ad una prova non da poco: “Holy Fire”, lo dicevamo, li ha consacrati come una delle migliori realtà del rock indipendente europeo. “What Went Down”, il capitolo successivo, pur essendo un buon disco, non ha portato novità di rilievo e anzi, si è mostrato un po’ ripetitivo, con qualche calo di tensione qua e là. Sbagliare questo avrebbe significato probabilmente l’oblio, per la band dell’istrionico Yannis Philippakis. E invece no. Invece i ragazzi hanno fatto centro e ci hanno forse consegnato il loro miglior lavoro di sempre (anche se come al solito, questo sarà il tempo a deciderlo). L’abbandono del bassista Walter Gervers (che dal vivo sarà sostituito da Jeremy Pritchard degli Everything Everything; diciamo che sono caduti in piedi) non ha apportato apparenti scossoni ed il songwriting si mostra più che mai lucido ed ispirato.
Musicalmente risulta piuttosto naturale inquadrare questo nuovo lavoro come un’ideale sintesi tra “Total Life Forever”, più articolato e sperimentale e appunto “Holy Fire”, dal groove irresistibile e pieno zeppo di hit.
L’impronta del gruppo è sempre quella, anche se le chitarre si sono fatte nel complesso meno graffianti ed il ritmo generale meno sostenuto. Oddio, ascoltando il primo singolo “Exits”, con cui siamo in confidenza da parecchio tempo, non si direbbe proprio: i riff geometrici, con quell’incastro perfetto tra chitarre e tastiere tipico del Math Rock dei primi tempi del gruppo, sembra volerci parlare di un gruppo che ha deciso di osare poco, di rifugiarsi nella comfort zone per conservare l’affetto di chi li ha sempre apprezzati. Oppure “White Onions”, accelerazione e sfogo progressivo, col solito cantato urlato e rabbioso di Yannis; il pezzo più duro del lotto, un ottimo pezzo ma sempre tutto secondo copione.
Altrove però, si avverte il desiderio di rallentare, di farsi più cupi e di privilegiare l’introspezione, come nel caso di “Moonlight”, non certo tra le cose più memorabili, ma che apre il disco su un tono interlocutorio, sorta di prologo ai temi catastrofici del lavoro (“I walked into the desert, I walked out of the past, You were riding on a black horse, To sing the songs at the table, again. I walked into the desert, I walked into the dawn And you came to me on the black horse, To remind all I've said and done”).
Splendida “In Degrees”, dove il gruppo fa un po’ il verso ai Primal Scream e gioca su un’elettronica ballabile che nel finale si tinge di Afro Beat. Più o meno stessa ricetta per “Syrups”, con un’accelerazione nel finale che è da capogiro e “On the Luna”, una sorta di “My Number” in chiave Madchester che dal vivo, lo immaginiamo, farà sfracelli. Anche “Sunday” è sorprendente: parte come ballata pianistica ma si riempie a poco a poco, sviluppando una coda in stile Rave, con un grandissimo lavoro di sezione ritmica.
Ci sono anche un paio di episodi che funzionano di meno: “Cafe D’Athens”, ipnotica e psichedelica, con giro di tastiera molto suggestivo, alla fine risulta un po’ pesante e la stessa cosa si può dire della conclusiva “I’m Done With the World”, ballata malinconica ma che passa via senza lasciare nulla, con l’impressione che il meglio l’abbiamo già ascoltato. Nonostante questo, i motivi per gioire sono tanti: i Foals hanno rinunciato a scrivere hit e sono tornati ad una formula più elaborata anche se, forti dell’esperienza degli ultimi anni, sono riusciti a fondere insieme le varie componenti del proprio sound, per un disco che sa essere immediato anche rinunciando alla dimensione più smaccatamente ruffiana; con in più, l’inserimento di quella componente elettronica che, a questo giro, è sicuramente la cosa più interessante.
Aspettiamo la seconda parte (che è stata descritta come più dura e pesante) per dare un giudizio definitivo. Ma già con questo primo capitolo possiamo dire che i detrattori sono stati zittiti. Ed è sempre un piacere quando accade.