Sarà banale, ma per fare colpo non bastano soltanto delle belle canzoni: ci vuole anche un contesto che sappia recepirle. Quando nel maggio del 1996 uscì Bringing Down the Horse, il più grande successo commerciale dei Wallflowers, la band losangelina poteva contare sul fatto che da almeno cinque anni il Rock, dopo i fasti degli anni Settanta, era tornato nuovamente popolare, in special modo grazie al successo planetario di gruppi come Nirvana e R.E.M. Le band di Kurt Cobain e Michael Stipe, però, non avevano solamente riportato le canzoni con le chitarre in cima alle classifiche, ma avevano anche contribuito a sdoganare il Rock presso una nuova generazione, facendolo diventare ben presto un fenomeno di costume. Un indizio? Be’, la sitcom più seguita del momento, Friends, che proprio di quella Generazione X parlava, aveva come sigla un brano che citava esplicitamente il jingle-jangle dei Byrds e in una delle prime puntate aveva ospitato Chrissie Hynde dei Pretenders. Tutto questo aprì la strada non soltanto ad altri artisti del giro Alternative (Pearl Jam, Alice in Chains, Soundgarden, Weezer, Smashing Pumpkins, Nine Inch Nails, Sonic Youth), ma anche ad altri che si caratterizzavano per un sound più tradizionale, smaccatamente Classic Rock, come i Counting Crows, gli Hootie & the Blowfish, i Soul Asylum e, appunto, i Wallflowers.
Questa la situazione che ha permesso ai Wallflowers di spiccare il volo, grazie a singoli come “One Headlight”, “6th Avenue Heartache”, “The Difference” e “Three Marlenas”, e a un album-capolavoro prodotto da un veterano come T-Bone Burnett. I quattro dischi di platino guadagnati, però, hanno sì regalato al leader Jakob Dylan un posto nel firmamento del Rock a stelle e strisce (chi vi scrive ha assistito a un karaoke in un pub di Santa Monica sulle note di “One Headlight”), ma non hanno permesso alla band di affrontare gli anni successivi con la giusta dose di serenità, dal momento che di lì in poi la lavorazione di ogni album si è rivelata particolarmente difficile, tra numerosi cambi di formazione e il tentativo di far convivere sotto lo stesso tetto tradizione e modernità (ecco spiegate le sfumature di elettronica su Red Letter Days, il suono eccessivamente à la Springsteen di Rebel, Sweetheart e l’eclettismo fin troppo spinto di Glad All Over).
Normale quindi che Jakob, nel frattempo, si sia dedicato anche ad altro, tra album solisti (gli ottimi Seeing Things e Women + Country) e documentari (Echo in the Canyon, con relativa colonna sonora), anche se la voglia di registrare un altro disco di Classic Rock lo ha sempre stuzzicato. «I Wallflowers sono gran parte del lavoro della mia vita», ha dichiarato recentemente Dylan, e anche se il gruppo non ha pubblicato del nuovo materiale per quasi dieci anni, Jakob ha sempre saputo che prima o poi sarebbero tornati. Mancava forse la scintilla giusta, ma questa è finalmente scoccata grazie al produttore Butch Walker, che negli ultimi anni ha lavorato con Brian Fallon, Frank Turner, Weezer e Green Day. Inizialmente scettico per timore di compromettere un così consolidato rapporto d’amicizia con la sua meticolosità in studio di registrazione, Jakob alla fine ha capitolato di fronte all’insistenza di Walker, che ha così potuto iniziare a lavorare su Exit Wounds tra la fine del 2019 e gli inizi del 2020 nel suo studio RubyRed Productions a Santa Monica.
Fortunatamente, tutto è filato liscio e l’amicizia è ancora intatta, soprattutto grazie alla capacità di Walker di saper assecondare l’amico Jakob al meglio, allestendo per lui (ormai titolare unico del marchio Wallflowers, dal momento che l’ex socio Rami Jaffee è un membro a tutti gli effetti dei Foo Fighters) una band di tutto rispetto, composta da Val McCallum alla chitarra (da anni al fianco di Jackson Browne), Mark Stepro alla batteria, Whynot Jensveld al basso (entrambi nella band di Walker), Aaron Embry alle tastiere (Edward Sharpe and the Magnetic Zeros e a lungo con Elliot Smith) e la leggenda del Country Shelby Lynne ai cori (e in duetto su “Darlin’ Hold On”), capace di replicare con grazia e gusto quel peculiare dialogo che intercorre tra chitarra-basso-batteria-e-organo che ha fatto la fortuna di artisti come Tom Petty & the Heartbreakers.
Ed è proprio a Tom Petty che Jakob sembra ormai guardare con sempre maggiore decisione. Exit Wounds, infatti, è un lavoro di puro artigianato, fatto di ritratti semplici e versi scarni, dove ai grandi proclami si preferiscono i piccoli gesti, consegnando all’ascoltatore una decina di canzoni di ottima fattura sartoriale che pescano a piene mani dalla più limpida tradizione Rock, come “Maybe Your Heart’s Not in It Anymore”, che apre il disco alla perfezione, e il primo singolo “Roots and Wings”. Con l’ingresso nella mezza età, inoltre, Dylan è diventato ancora più riflessivo che in passato, e non mancano le canzoni dall’incedere meditabondo, come “I’ll Let You Down (But Will Not Give You Up)”, ma appena il disco sembra prendere una china troppo pensierosa e malinconica, ecco che il mood cambia all’improvviso, con un pezzo uptempo come “Who’s That Man Walking ‘Round My Garden” che rimette subito le cose a posto.
Con Exit Wounds Dylan ci consegna un album agile e conciso, come nella migliore tradizione del Rock da FM, dove tutto doveva stare in due facciate scarse di vinile, e che proprio per questo motivo mette in risalto sia i pregi della sua scrittura sia la bravura del produttore Walker nel saper vestire le canzoni con l’abito gusto. Ritorni come questo e quello dei colleghi Counting Crows non sono solo un semplice fattore di nostalgia, una scusa per andare in tour e suonare i grandi successi (quando succederà), ma sono indice del fatto che queste band hanno ancora qualcosa da dire. E, come dimostra Exit Wounds, lo sanno dire benissimo.